Le parole sono pietre, diceva Carlo Levi. Anche quando non vengono pronunciate, lasciano un segno, scavando un solco profondo nel cuore di chi le attende. Così è stato venerdì scorso al funerale di Mario Paglino e Gianni Grossi, coppia nella vita e nel lavoro, unita anche civilmente nel 2022, morti insieme in un tragico incidente d’auto sull’A, mentre tornavano da una vacanza.
L’amore invisibile: il peso delle parole non dette in chiesa
Due creativi, fondatori del marchio “Magia2000”, conosciuti in tutto il mondo per le loro Barbie da collezione, ricamate e modellate a mano, vere opere d’arte in miniatura. Eppure, durante l’omelia, la parola “amore” non è mai stata pronunciata. Al suo posto, il celebrante ha parlato di una “profonda amicizia”. Una scelta che ha lasciato l’amaro in bocca a molti dei presenti, come se si fosse tentato di riscrivere la loro storia, edulcorandola, nascondendola, quasi censurandola.
Don Renzo Cozzi, il sacerdote che ha officiato il funerale, ha ammesso di non conoscere i due uomini e di non aver parlato con i familiari prima della cerimonia. Così, nel tentativo di non “andare contro le regole ecclesiastiche”, ha scelto di non pronunciare la parola “amore”. Nemmeno una volta.
''Non volevo dare giudizi – ha dichiarato poi –. Penso che loro due si amassero profondamente. Ma la Chiesa non riconosce le unioni tra persone dello stesso sesso, dunque ho cercato un modo diverso per dirlo''.
Un modo diverso. Che, a molti, è sembrato un modo sbagliato. Anche perché all’ingresso della chiesa c’era proprio la foto del loro matrimonio. E forse era proprio quella foto – discreta, ma inconfondibile – a chiedere, con la forza delle immagini, ciò che le parole del rito non hanno saputo (o voluto) dire. Non si tratta di accusare un singolo sacerdote, né di trasformare un funerale in un campo di battaglia ideologica.
Ma è impossibile non cogliere la questione più profonda che questo episodio solleva: perché dire “amico” al posto di “compagno di vita” non è solo una questione semantica. È una questione di verità. È scegliere se riconoscere o meno la pienezza di una relazione, la sua intimità, la sua profondità. È scegliere se onorare la storia di due esseri umani oppure relegarla ai margini del discorso, come fosse qualcosa di cui non si può o non si deve parlare troppo apertamente.
E allora non è più solo una questione di liturgia: è una questione di giustizia, di ascolto, di fedeltà a quel messaggio evangelico che mette l’amore – ogni amore autentico – al centro. Ed è proprio qui il paradossi che fatica a dissolversi. Perché Gesù non ha avuto paura di sedersi con i peccatori, di parlare con gli esclusi, di amare senza calcolo. Non ha mai evitato le parole. Anzi, le ha usate per abbattere muri, per spezzare convenzioni, per indicare la via della libertà. Eppure, nel cuore stesso di un’istituzione che dovrebbe fare dell’amore il suo vessillo, ci si inceppa proprio su quella parola. “Chi sono io per giudicare?”, disse nel 2013 Papa Francesco aprendo uno spiraglio che ha riscaldato il cuore di tanti credenti LGBTQ+.
Da allora, piccoli segnali di apertura si sono susseguiti: la possibilità di benedire coppie omosessuali, il riconoscimento delle unioni civili, la richiesta di sospendere il giudizio morale. Tutto vero. Poi il silenzio. Opere e omissioni che fanno male, malissimo. Perché dietro quella sostituzione lessicale - forse timida, forse prudente, forse solo goffa - si nasconde una ferita antica.
La ferita di chi ama e si vede invisibile. La ferita di chi crede in Dio e si sente ospite scomodo nella propria comunità. La ferita di chi, persino nel momento dell’ultimo saluto, deve accettare che il proprio amore venga cancellato, derubricato a “amicizia”. Profonda, sì. Ma che non è amore. Parola del Vangelo. Parola di Gesù.