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Non sono malvagio di natura. Ero buono: la sofferenza mi ha reso ciò che sono… Così parla la creatura nel Frankenstein di Mary Shelley. E in questa frase, semplice e devastante, c’è tutto: il dolore del rifiuto, la sete di amore, la denuncia di un’ingiustizia antica quanto l’uomo. Nessuno nasce mostro. Lo si diventa. Lo si diventa per colpa dello sguardo degli altri, dell’esclusione, dell’odio che deforma l’anima più di qualsiasi cicatrice. Mary Shelley aveva diciannove anni quando diede vita a questa storia, eppure nelle sue pagine scorre una consapevolezza che sa di esperienza e di dolore.
Frankenstein torna a vivere (e a soffrire) con Guillermo del Toro
C’è la paura di un sapere che diventa hybris, c’è il bisogno disperato di essere amati, c’è il rifiuto della diversità, c’è la responsabilità della creazione. Quella di Victor Frankenstein, che crea un essere vivente e poi lo rigetta con orrore. Una creatura che parla, ama, soffre, desidera essere riconosciuta. E nel suo dolore si riflette tutta la condizione umana. Oggi Guillermo del Toro porta questa storia su Netflix, in un film con Oscar Isaac e Jacob Elordi che ha richiesto oltre trent'anni per prendere forma. Il regista messicano torna alle radici del romanzo, a quel nucleo di dolore e abbandono che troppo spesso è stato sepolto sotto gli effetti speciali e i laboratori elettrici di Hollywood.
Ma come mai il messaggio originale di Mary Shelley rimane oscurato dal successo stesso della storia? A questa domanda ha tentato di rispondere un ampio ed approfondito reportage della BBC. Che parte dall’inizio. Da una notte buia e tempestosa: quella dell’estate del 1816, quando sulle rive del Lago di Ginevra, nella suggestiva cornice di Villa Diodati, un gruppo di giovani intellettuali si ritrovò a sfidare le intemperie e la noia con una gara di racconti dell'orrore. "Scriveremo ognuno una storia di fantasmi", propose Lord Byron ai suoi amici: il poeta Percy Shelley, il medico John Polidori e la diciottenne Mary Wollstonecraft Godwin, futura Shelley, che avrebbe dato vita a quello che è considerato il primo vero romanzo di fantascienza della storia. "Mi sono data da fare per pensare a una storia", avrebbe scritto in seguito l'autrice. "Una che parlasse delle misteriose paure della nostra natura e suscitasse un orrore emozionante". Il risultato fu Frankenstein, o il moderno Prometeo: non solo un racconto gotico, ma una stratificata parabola che intreccia filosofia, scienza, responsabilità genitoriale e critica sociale in un corpo narrativo tanto impressionante quanto la creatura che ne è protagonista. Al centro, due archetipi destinati a entrare nell'immaginario collettivo: la creatura abbandonata e lo scienziato che gioca a fare Dio. Del resto, il momento storico era perfetto per una storia del genere. L'inizio dell'Ottocento segnava l'alba della modernità. La parola "scienza" esisteva già, ma non quella di "scienziato". I salotti intellettuali dibattevano sul principio vitale, sulla possibilità di riportare in vita i morti. Luigi Galvani faceva contrarre zampe di rana con correnti elettriche. Suo nipote Giovanni Aldini, nel 1803, applicò la stessa tecnica al cadavere di un assassino appena giustiziato. Il padre di Mary, William Godwin, conosceva tutti i pensatori che discutevano di questi esperimenti audaci e inquietanti. "Con la modernità arriva un senso di ansia per ciò che gli esseri umani possono fare, e in particolare un'ansia per la scienza e la tecnologia", spiega Fiona Sampson, autrice di "Alla ricerca di Mary Shelley", in un'intervista alla BBC. Mary fu la prima a trasformare questa ansia in narrativa, creando un precedente che avrebbe influenzato secoli di cultura. Ma c'è un dettaglio geniale: nel romanzo non c'è vera scienza. Victor Frankenstein descrive il momento cruciale in modo vago e poetico. Raccoglie gli strumenti della vita per infondere una scintilla di essere nel corpo inanimato. Nient'altro. Nessuna formula, nessun procedimento. Questa vaghezza ha reso la storia immortale, perché ogni epoca ha potuto proiettarci le proprie paure. La bomba atomica, le colture geneticamente modificate, la clonazione, l'intelligenza artificiale. Il prefisso "Franken" è diventato un marchio universale per ogni esperimento che supera i confini dell'etica. Eppure qualcosa si è perso lungo la strada. Le trasformazioni teatrali prima, cinematografiche poi, hanno cambiato la natura della storia. Le prime opere britanniche aggiunsero elementi che non esistevano nel libro originale: l'assistente gobbo, la celebre battuta "È vivo!", un mostro quasi incapace di parlare. Christopher Frayling, nel suo studio "Frankenstein: The First Two Hundred Years", nota che queste versioni "hanno dato il tono alle future drammatizzazioni", semplificando tutto in archetipi facilmente riconoscibili. Poi arrivò Hollywood. Il film del 1931 di James Whale, con Boris Karloff truccato da creatura dai bulloni nel collo, creò un'immagine così potente da cancellare quasi tutto il resto. "Frankenstein ha creato l'immagine cinematografica definitiva dello scienziato pazzo e, nel frattempo, ha dato il via a migliaia di imitazioni", scrive Frayling. Hollywood aveva inventato la sua versione del mito, e quella era diventata la verità per milioni di persone.
Da allora sono arrivati centinaia di adattamenti. Dal cortometraggio di Thomas Edison del 1910 alla Hammer Films britannica, da Mel Brooks a Kenneth Branagh, da "The Rocky Horror Picture Show" ai videogiochi moderni. Esistono versioni italiane, giapponesi, persino "Blackenstein" negli anni '70. I Metallica hanno scritto canzoni sulla storia, così come Ice Cube e i T'Pau. È diventato, per usare le parole di Bobby Pickett in "Monster Mash", "un disastro da cimitero che ha preso piede in un lampo". Ma in tutto questo rumore, la voce della creatura si è persa. Perché nel romanzo originale non è un mostro muto e violento. È uno dei tre narratori del libro. Legge il Paradiso Perduto, studia Plutarco e Goethe. Parla con l'eloquenza di un personaggio shakespeariano, come il Calibano della Tempesta. E il suo lamento è straziante: "Ricorda che io sono la tua creatura; dovrei essere il tuo Adamo, ma sono piuttosto l'angelo caduto, che tu allontani dalla gioia senza alcun male. Ovunque vedo beatitudine, dalla quale io solo sono irrevocabilmente escluso. Ero benevolo e buono; la miseria mi ha reso un demonio". Questa è la vera tragedia. Victor Frankenstein abbandona la creatura nell'istante stesso in cui apre gli occhi. È quello che Frayling chiama "quel momento post-partum", un rifiuto genitoriale assoluto. E qui la biografia di Mary Shelley si intreccia profondamente con la sua opera. Aveva perso la madre Mary Wollstonecraft nel parto. Aveva appena seppellito la sua bambina. Mentre scriveva il romanzo stava accudendo la sorellastra incinta. E impiegò esattamente nove mesi a completare il manoscritto. Nascita e morte, creazione e abbandono: erano esperienze che conosceva intimamente. La creatura nasce innocente. Viene respinta dal creatore, poi dalla società intera. Solo allora, dopo ripetuti rifiuti, diventa assassina. Va da sé che Frankenstein non è una storia sulla scienza impazzita. È una parabola sulla responsabilità verso chi mettiamo al mondo, verso gli esclusi, verso chiunque non corrisponda agli standard di normalità o bellezza. È un monito sulla violenza del rifiuto sociale. "Il modo in cui a volte ci identifichiamo con Frankenstein, - poiché tutti abbiamo corso rischi, abbiamo tutti avuto momenti di arroganza - e in parte con la creatura, sono entrambi aspetti di noi stessi", dice Fiona Sampson. "Entrambi ci parlano dell'essere umani. E questo è incredibilmente potente".
Guillermo del Toro ha compreso questa dimensione profonda. Alla première veneziana dello scorso agosto, ha raccontato a Variety che il suo film esplora "la discendenza del dolore familiare", con Oscar Isaac nel ruolo del padre che rifiuta il figlio-creatura. "Era un outsider. Non si adattava al mondo. Era fuori posto, proprio come mi sentivo io da bambino", ha spiegato il regista parlando della creatura. "Frankenstein è un canto dell'esperienza umana... C'è così tanto della mia biografia nel DNA del romanzo". Del resto il legame di Del Toro con questa storia è profondo e antico. Quando nel 2018 vinse il Bafta per "La forma dell'acqua", un'altra favola sui mostri e gli emarginati, ringraziò pubblicamente Mary Shelley: "Ha colto la difficile situazione di Calibano e ha dato peso al fardello di Prometeo, ha dato voce a chi non ha voce e presenza all'invisibile, e mi ha mostrato che a volte per parlare di mostri dobbiamo inventarne di nostri, e le parabole lo fanno per noi". Nella prefazione all'edizione del 1831, Mary Shelley scrisse con consapevolezza profetica: "E ora, ancora una volta, ordino alla mia orribile progenie di andare avanti e prosperare". Il creatore e la creatura, la scrittrice e la sua storia. Sono andati avanti per oltre due secoli, hanno prosperato ben oltre ogni immaginazione. Frankenstein non è più solo un romanzo. È diventato un mito vivente, impossibile da contenere, che continua a mutare forma per adattarsi alle paure di ogni epoca.