Cinema & Co.
Se ne va così, come un’ombra tra le ombre, con quella stessa discrezione che segnava ogni suo passo dietro al padre Antonio tra le vie umide della Roma del dopoguerra. Enzo Staiola, il bambino dagli occhi troppo grandi per la sua età e troppo veri per la finzione, è morto ieri, a 85 anni, nella sua Roma. Era nato alla Garbatella e lì ha chiuso il cerchio, come un personaggio di Cesare Zavattini, lasciando dietro di sé una scia di silenzi più eloquenti di qualsiasi discorso.
Addio a Enzo Staiola, l’infanzia del Neorealismo
Aveva solo nove anni quando, nel 1948, Vittorio De Sica lo vide per strada e capì subito che non c’era bisogno di cercare oltre. Non sapeva recitare, non ne aveva bisogno.
Camminava ''come un uomo piccolo'', pare avrebbe detto, guardandolo, De Sica. Era la povertà incarnata con la compostezza di chi non ha tempo per il lamento, e la malinconia fiammante negli occhi che nessun direttore della fotografia avrebbe potuto inventare.
Così nacque Bruno Ricci, figlio di un disoccupato e specchio di un Paese intero che a fatica provava a rialzarsi dopo il ventennio fascista e dopo la guerra. Ed in quel capolavoro che è ''Ladri di biciclette'', Staiola non interpretava, esisteva.
Con quella serietà infantile che sgretola ogni sentimentalismo da cartolina, restava muto davanti al padre che ruba una bici, e in quel mutismo si compiva un’intera educazione sentimentale. Gli occhi del piccolo Bruno, mentre la cinepresa si avvicina lenta, valgono come tutta la grammatica del Neorealismo.
Guardarlo è ancora oggi un’esperienza che commuove e disturba, come aprire una lettera mai spedita da un’Italia che non c’è più. Leggenda narra che De Sica per strappargli le lacrime in scena lo mortificasse davanti alla troupe o gli accendesse sigarette sotto gli occhi.
Voci, forse, oppure verità d’epoca, prima che la pedagogia sostituisse il carisma. Resta il fatto che tra i due si instaurò una relazione che andava oltre la direzione degli attori: Staiola ne parlava come di un padre dolce e severo, capace di spingerlo sul bordo del dolore per farlo brillare. Dopo quel film irripetibile, recitò ancora. Con Anna Magnani, Aldo Fabrizi, Gina Lollobrigida. Passò persino sotto la macchina da presa di Mankiewicz in ''La contessa scalza''.
Ma la magia, quella che nasce solo quando la realtà non sa di essere filmata, non tornò mai più. Il bambino del Neorealismo non si trasformò in attore: restò bambino per sempre, congelato in quell’inquadratura dove segue il padre tenendolo per mano, tra le rovine di una città e della dignità.
E così, negli anni Sessanta, Staiola abbandonò il cinema e… si mise a lavorare al catasto. Un impiego, una vita normale, lontano dalla ribalta. Gli bastava. Di tanto in tanto qualcuno lo riconosceva per strada, alla Garbatella, e gli chiedeva di ''Ladri di biciclette''.
Lui sorrideva, annuiva, e quasi imbarazzato raccontava qualche aneddoto. O raccontava che quella scena, la terribile scena in cui il padre viene sorpreso a rubare, la capì solo da adulto. Anzi, da bambino non sapeva nemmeno bene cosa stessero girando.
Che poi, forse, forse è proprio questa la grandezza di ''Ladri di biciclette'': la non-consapevolezza.
L’Italia usciva dalle macerie, e i suoi attori più sinceri erano quelli che non sapevano di essere tali. Così Roma era identica a quella raccontata: tram affollati, piazze piene di uomini in cerca di lavoro, biciclette che erano pane. Pane come quello raccolto da terra proprio da Bruno in una scena tagliata.
Un gesto che raccontava tutto: non per fame scenica, ma per abitudine. Era questo il Neorealismo: non la rappresentazione della povertà, ma la sua presenza. Un cinema più vero della vita, con un bambino che, senza frasi da dire e senza un copione, ha saputo recitare la parte dell’intera umanità.