Certe riparazioni arrivano con il passo lento della Storia, come un treno in ritardo che si ostina a passare quando ormai la stazione è vuota. E così, domenica scorsa, al Morehouse College, una voce ha pronunciato un nome che per decenni era rimasto sepolto nei silenzi dell’istituzione: Dennis Hubert.
La laurea postuma a Dennis Hubert 95 anni, dopo essere stato linciato
Di lui non restano fotografie nei corridoi del campus, né aneddoti nei libri ufficiali. Eppure, in quell'istante, la sua presenza è tornata a farsi sentire, potente e commovente, quando l'imam Plemon El-Amin è salito sul palco per ricevere una laurea postuma, in Teologia, a nome di suo zio. Un gesto carico di un peso che trascende i novantacinque anni, un simbolo di un futuro spezzato e finalmente onorato.
Dennis, un promettente studente di teologia di diciotto anni al secondo anno di Morehouse, aveva una vita davanti a sé. Ma quel futuro gli fu strappato nel giugno del 1930, quando fu linciato da una folla di sette uomini bianchi nel cortile di una scuola segregazionista di Atlanta.
Ora, a distanza di quasi un secolo, il Morehouse College, istituzione storicamente afroamericana, ha compiuto un atto che va ben oltre il riconoscimento accademico: ha tentato di risanare una ferita profonda nella propria storia e nella memoria collettiva. Durante la toccante cerimonia, il presidente di Morehouse, David Thomas, ha onorato la memoria di Hubert con parole che risuonano dolorosamente attuali.
Thomas ha definito Hubert "figlio di Morehouse, martire della giustizia e quello che oggi la storia ricorda come il Trayvon Martin degli anni '30 ad Atlanta". Martin, un ragazzo di 17 anni, fu ucciso con un colpo di pistola, nel febbraio del 2012, da un uomo che faceva parte delle ronde volontarie che pattugliavano le strade d Sanford, in Florida, a caccia di ladri. A conclusione del processo, l'assassino, George Zimmerman, fu assolto perché, secondo la corte, aveva agito per legittima difesa, pensando che Martin fosse armato, cosa non vera.
Un paragone che lega indissolubilmente la brutalità di un secolo fa a un'eco persistente di ingiustizia razziale, mostrando come certe ferite non si rimarginino da sole. Per El-Amin, settantacinque anni, che non ha mai avuto la possibilità di conoscere suo zio, quel momento ha richiamato un antico detto islamico sulle tre cose che una persona lascia dopo la morte: la carità, la conoscenza e le preghiere dei propri familiari.
"Molte preghiere sono state recitate in suo nome," ha raccontato El-Amin alla CNN, con una voce che trasmetteva un mix di dolore e gratitudine. "Molte persone lo hanno ricordato e hanno ricevuto informazioni sulla sua vita e sulla sua eredità, e quindi la conoscenza era presente, così come la carità del suo sacrificio, affinché fossimo più consapevoli del valore della vita dei giovani e della vita umana, ma anche del valore della giustizia".
Un sacrificio, dunque, che si trasforma in una lezione vivente, una ferita che genera consapevolezza. La famiglia di Hubert aveva radici profonde e rispettate nella comunità di Atlanta: il padre era un noto predicatore, la madre la preside della scuola elementare dove Dennis fu ucciso. "Il fatto che uno dei loro promettenti ragazzi, uno studente del secondo anno al Morehouse College, sia stato assassinato a sangue freddo... a quel tempo, nel 1930, è come se non fossero stati riconosciuti diritti umani al popolo della Georgia", ha rdetto El-Amin, descrivendo l'orrore e l'impotenza di quell'epoca in cui la dignità umana era negata.
Il linciaggio di Dennis fu un'ombra che si allungò su generazioni, un trauma silenzioso. La madre di El-Amin, che aveva solo 12 anni quando il fratello fu ucciso, parlava a malapena di lui, il dolore era troppo grande. L'Imam ricorda commosso come, crescendo e diventando lui stesso il tutore della madre, lei spesso lo chiamasse "Dennis": un segno di un amore e di una perdita che il tempo non aveva potuto cancellare.
Perché la tragedia non solo ha spezzato un'esistenza, ma ha lacerato l'intera famiglia, spingendo molti a fuggire da Atlanta, unendosi ai sei milioni di afroamericani che tra il 1916 e il 1970 lasciarono il Sud per sfuggire al terrore razziale, come documenta la Fulton County Remembrance Coalition.
La storia di Dennis Hubert, come quella di tante vittime di linciaggi – fu una delle quasi 600 vittime in Georgia tra il 1877 e il 1950, il secondo numero più alto di esecuzioni sommarie in qualsiasi Stato – è rimasta per decenni avvolta nel silenzio, persino tra gli stessi laureati di Morehouse.
Michael Tyler, classe 1977, ha ammesso di "non credere che nessuno dei miei compagni di classe, o nessuno della nostra generazione, fosse a conoscenza di ciò che era accaduto con Dennis Hubert".
Solo di recente, grazie a una mostra e all'impegno instancabile di persone come Sean Jones, laureato nel 1998 e presidente della sezione di Atlanta dell'Associazione per lo Studio della Vita e della Storia Afroamericana, questa dolorosa pagina è riemersa. "È una questione personale, dolorosa e... spesso spaventosa, perché alcune persone hanno incubi a riguardo quando sentono questo tipo di storie", ha spiegato Jones, sottolineando l'importanza di affrontare queste verità, per quanto scomode.
L'omaggio di Morehouse, così atteso e significativo, è stato "straordinariamente significativo e avvincente," secondo Tyler. "Qualcosa di cui sono estremamente orgoglioso per aver fatto la mia alma mater: raccontare una storia che non era mai stata divulgata al pubblico come avrebbe dovuto essere."
Ma il riconoscimento postumo non è un mero gesto formale; è un impegno vibrante. Un portavoce del Morehouse College ha ribadito che "la memoria continuerà a ispirare una nuova generazione di uomini di Morehouse a servire con coraggio, a dire la verità al potere e a sostenere gli ideali di equità e leadership morale nelle rispettive vocazioni."
Questa decisione, frutto anche del lavoro instancabile della Fulton County Remembrance Coalition e dell'Equal Justice Initiative, ha portato a erigere una lapide sul luogo dell'omicidio di Hubert. Lì, nel 2022, un gruppo di studenti di Morehouse si è preso per mano, ha circondato il memoriale e ha cantato l'inno "Dear Old Morehouse" in onore di Dennis. Un'immagine potente, che dimostra come il ricordo, lungi dall'essere solo un peso, possa generare una nuova forza, un senso di appartenenza e una promessa per il futuro. "Novantacinque anni dopo, le persone sono consapevoli della sua vita, il che significa che è ancora vivo, anche se non è qui con noi fisicamente o in corpo, ma la sua vita, la sua volontà, e lui sta fornendo ispirazione per quelli di noi che sono rimasti indietro," ha concluso l'Imam El-Amin, con voce intrisa di una speranza che resiste al tempo e all'ingiustizia.
"Possiamo vedere che quei tempi davvero terribili non sono poi così lontani e possono facilmente tornare," ha ammonito El-Amin, un monito che rimbomba nella coscienza. Bryan Stevenson, direttore esecutivo dell'Equal Justice Initiative, ha aggiunto che "quando c'è una tale ostilità in alcuni luoghi verso la conoscenza della storia della lotta e della violenza contro i neri," la memoria diventa un baluardo invalicabile.
Oggi, a distanza di decenni, riscoprire la figura di Dennis Hubert non è solo un modo per rendere onore a un pioniere dimenticato: è un’occasione per interrogarci su come trattiamo, ancora oggi, chi appartiene a una minoranza. Perché l’inclusione non è una parola da usare nei discorsi commemorativi: è un processo attivo, quotidiano, fatto di scelte e responsabilità. Senza contare che purtroppo, specialmente negli Stati Uniti e mai come oggi, la segregazione razziale non è un capitolo chiuso.
Non completamente. Le sue conseguenze sono ancora visibili nelle disuguaglianze scolastiche, nei tassi di incarcerazione, nelle disparità di reddito. “Possiamo vedere che quei tempi davvero terribili non sono poi così lontani e possono facilmente tornare", ha detto El-Amin. È quindi giusto applaudire a questo gesto, ma è altrettanto giusto chiedere di più. Perché se oggi ci sono ancora giovani che si sentono soli nei corridoi delle università, se ci sono ancora barriere invisibili che separano chi appartiene davvero da chi deve “guadagnarsi il diritto” di esserci, allora il razzismo non è finito: ha solo cambiato forma.