Ambiente

L’ultima corsa dei cavalli selvaggi

Barbara Leone
 

Con coda ondeggiante e criniera al vento, le froge selvagge mai contratte dal dolore, e bocche non insanguinate da morso o redini, e piedi che il ferro mai calzò, e i fianchi intatti da sprone o frusta, un migliaio di cavalli, selvaggi, liberi, come onde che si inseguono nel mare, giunsero fitti tuonando.
Questi versi immortali di Lord Byron evocano l'essenza della libertà primordiale, quella stessa libertà che per millenni ha scandito la vita dei cavalli selvaggi sulle vaste distese della Terra.

L’ultima corsa dei cavalli selvaggi

Ma il tempo e la mano dell'uomo hanno cercato di spegnere quel galoppo indomito, riducendo le antiche mandrie a un ricordo sbiadito, impresso solo nelle pitture rupestri che ancor oggi impreziosiscono le pareti delle caverne preistoriche, testimonianze di un passato remoto in cui la natura e l’uomo coesistevano in equilibrio.

E però, qualcuno si è salvato: il cavallo di Przewalski, l’unico vero cavallo selvatico ancora esistente. Un animale basso e robusto, con una criniera eretta e una corporatura tozza che gli conferisce un aspetto primitivo simile, appunto, a quello delle antiche raffigurazioni rupestri.

Un tempo diffuso in tutta Europa e Asia, questa spettacolare creatura - il cui nome si lega a Nikolai Przewalski, esploratore russo che nel 1878 portò in Europa un teschio di cavallo proveniente dall'Asia Centrale - ha subito nei secoli una progressiva riduzione della popolazione a causa della caccia, della competizione con il bestiame domestico e dei cambiamenti ambientali.

Ma il colpo di grazia giunse nel XX secolo, quando la sua popolazione crollò drasticamente fino a toccare il minimo storico nel 1945 con appena 31 esemplari in cattività. Nel 1969, un biologo mongolo osservò quello che sarebbe stato considerato l'ultimo cavallo di Przewalski in natura. Nonostante l’apparente condanna all'estinzione, il destino di questa specie non era però ancora segnato.
Grazie a un ambizioso programma di conservazione, una collaborazione senza precedenti tra istituzioni scientifiche di tutto il mondo ha avviato un processo di ripopolamento.

Lo Zoo di Praga ha giocato in questo un ruolo chiave, coordinando uno studbook internazionale dal 1959, il più antico ancora in funzione sotto l’egida della World Association of Zoos and Aquariums. E così nel corso dei decenni, decine di esemplari sono stati trasferiti da Europa e Stati Uniti verso centri di riproduzione in Asia. Tra il 1985 e il 2005, 24 cavalli furono trasportati nello Xinjiang, in Cina, dando vita a una popolazione che nel 2018 contava già 413 individui. Ma l’impresa più straordinaria fu la reintroduzione nelle steppe della Mongolia negli anni ’90, dove oggi vivono oltre 800 cavalli di Przewalski.

"Sono creature davvero belle", dice alla CNN Ganbaatar Oyunsaikhan, biologo che lavora con questa specie da 25 anni. "Vivono in gruppi familiari con un solo stallone dominante, e prendono decisioni collettive. I giovani maschi, a circa due anni, vengono allontanati per formare nuovi gruppi".

Ma il bello deve ancora venire, perché il cavallo di Przewalski ha trovato rifugio in un luogo assolutamente inaspettato: la zona di esclusione di Chernobyl. Un’area di oltre 2.600 chilometri quadrati è rimasta disabitata dall’uomo dopo il disastro nucleare del 1986, e che è stata trasformata in un santuario per la fauna selvatica.
Nel 1998, circa 30 cavalli furono rilasciati in questa terra silenziosa e radioattiva. Oggi, la popolazione è cresciuta fino a raggiungere i 150 esemplari, dimostrando ancora una volta la straordinaria capacità di adattamento di questi straordinari cavalli.

L’ultima grande sfida si è svolta nel giugno 2024, quando sette cavalli di Przewalski sono stati trasferiti dagli zoo di Praga e Berlino alla steppa kazaka, con un viaggio epico a bordo di un aereo militare ceco. Il loro arrivo nel centro di reintroduzione di Alibi, otto ore di viaggio dall’aeroporto più vicino, è stato un momento carico di emozione.

"Quando i primi cavalli sono usciti dal box, la gente piangeva", racconta sempre alla CNN Mašek, presente alla liberazione. "È stato incredibile, un’esperienza unica nella vita". Un percorso che, però, non è stato privo di ostacoli. Le inondazioni infatti hanno devastato il centro di reintroduzione, complicando ulteriormente la logistica del progetto. Inoltre, la difficoltà di comunicare l'importanza della conservazione ai locali ha richiesto sforzi diplomatici e sensibilizzazione. Ma il momento culminante è arrivato quando i cavalli hanno finalmente fatto il loro primo passo nella steppa.

"Quando i cavalli sono scappati nella steppa, il secondo e il terzo si sono voltati e ci hanno guardato", racconta Mašek. "Sembrava quasi che dicessero ‘grazie’". Ora, la sfida più grande è l'inverno. Perché le temperature nella steppa kazaka possono raggiungere i -45°C, e i cavalli dovranno imparare a scavare nella neve per trovare il cibo. Ma se la loro storia ci insegna qualcosa, è che la resistenza è nel loro dna. E così, dopo secoli di persecuzioni e sopravvivenza ai margini dell'estinzione, i cavalli di Przewalski proseguono quella corsa iniziata millenni fa. Mentre il vento soffia ancora sulle praterie, la loro criniera ondeggia fiera, e il battito degli zoccoli risuona nella steppa come un’eco di un passato lontanissimo, che si fa promessa per il futuro.

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