FOTO (Cropped): Radio Bruno - CC BY 3.0
Anastasio. No, non l’imperatore bizantino. E nemmeno il santo protettore degli anestesisti. Anastasio è un rapper napoletano che nel 2018 vinse X Factor, programma televisivo dove aspiranti cantanti vengono sottoposti a un'ordalia medievale condita di piagnistei e standing ovation prefabbricate.
Quaranta sfumature di flop
Da allora ha sfornato qualche disco che non ha esattamente rivoluzionato gli equilibri della musica italiana né fatto tremare le fondamenta del rap nazionale. Ma insomma, uno si arrangia come può in questo mercato asfittico dove tutti rappano tutto e nessuno ascolta. Orbene, questo Anastasio ha compiuto un gesto di tale spericolata audacia da meritare quantomeno una menzione nella storia del galateo discografico: ha detto come stanno le cose. Senza infingimenti, senza quella prosa ossequiosa da necrologio che infesta i comunicati stampa di certi manager ed etichette musicali. Ha annunciato l'annullamento di due date del suo tour - Perugia e Bari, per la cronaca - specificando, con una franchezza che sfiora l'impudicizia, il motivo vero: biglietti venduti, quaranta.
Una quarantina a Bari, "pochi meno" a Perugia. "Insomma stiamo là", ha chiosato con quella nonchalance post-traumatica di chi ha appena finito una settimana di prove ed è troppo spossato per architettare menzogne plausibili. Ora, fermiamoci un momento a contemplare l'enormità di questo atto. In un'epoca dove la verità è merce più rara del buonsenso a un comizio elettorale, dove i concerti vengono annullati adducendo le giustificazioni più fantasiose - "problemi tecnici" (il palco costa più del pubblico), "motivi personali" (depressione da prevendite), "cause di forza maggiore" (la forza maggiore dell'aritmetica elementare) - ecco che questo ragazzo si alza e dichiara, con la disinvoltura di chi ordina un caffè: nessuno compra i biglietti, arrivederci e grazie. È roba da antologia, signori. Roba che fra trent'anni verrà studiata nei corsi di comunicazione come esempio di quella bizzarra patologia chiamata "sincerità". Perché nel rutilante circo equestre dei live italiani, dove i "sold out" germogliano copiosi come funghi dopo la pioggia, salvo scoprire che puoi acquistare biglietti anche la sera stessa per concerti "esauriti da mesi" e finanche a prezzi stracciati (un nome su tutti: Elodie), ammettere candidamente di aver venduto meno biglietti di quanti ne servono per riempire un autobus extraurbano è gesto che rasenta l'eversione.
Del resto il problema è sistemico. E pure sistemicamente ilare, se si guarda la faccenda con il giusto distacco cinico. Abbiamo artisti che escono da talent show convinti di essere i novelli Eric Clapton o, vabbè, almeno Vasco, con pretese da rockstar internazionale e cachet che farebbero arrossire un hedge fund manager. Abbiamo produzioni faraoniche per riempire club dove poi rimbombano gli echi della solitudine. Abbiamo un'intera generazione di musicisti che vanta milioni di stream su Spotify ma fatica a radunare una comitiva decente per un concerto. Perché i follower, ecco il punto saliente della questione, non si materializzano ai live. Le visualizzazioni su TikTok non compilano il modulo d'acquisto.
I like su Instagram non pagano il biglietto. Concetti ostici, lo sappiamo, quasi metafisici nella loro complessità, ma la realtà ha questa fastidiosa abitudine di essere inamovibile come una suocera il giorno di Natale: prima o poi ti presenta il conto. E così mentre alcuni continuano imperterriti a recitare la tragicommedia dei numeri truccati, dei palazzetti stracolmi (di sedie vuote), dei tour trionfali (nel senso che è un trionfo se arrivano alla fine), Anastasio ha fatto l'unica cosa sensata: ha gettato la spugna e ha detto "ragazzi, qui siamo quattro gatti". Ha dato del lei alla verità, l'ha invitata a cena e le ha pure offerto il dolce. Detto terra terra: ha avuto la decenza di non prenderci per il culo. Ha guardato il vuoto pneumatico delle prevendite e ha detto: signori, il re è nudo. Anzi, è proprio in mutande, e pure spaiate. Continuerà comunque il tour, per carità.
Le altre date sono "abbastanza cariche", ha assicurato con un ottimismo che commuove per la sua disperata tenacia. Porterà in giro il suo "Le macchine non possono pregare", titolo che suona già come una metafora involontaria del sistema musicale contemporaneo: freddo, meccanico, privo di anima. Nel frattempo, il resto del carrozzone proseguirà imperterrito nella sua marcia trionfale verso il baratro, continuando a strombazzare successi inesistenti, a dichiarare sold out che esistono solo nelle fantasie allucinogene degli addetti stampa, a costruire gigantografie di popolarità che crollano al primo refolo di verifiche. Perché dire le cose come stanno, ammettere un fallimento, in questo strambo Paese, equivale a confessare di avere una malattia venerea al pranzo di Natale: semplicemente non si fa. E quando qualcuno lo fa è quasi commuovente. Come vedere un unicorno in autostrada: sai che non dovrebbe esistere, ma se lo incontri ti viene da applaudire.