Cinema & Co.

“Simone Veil. La donna che ha attraversato il secolo breve”, da Auschwitz al Parlamento europeo

di Teodosio Orlando
 

Il regista Olivier Dahan si era finora distinto per alcuni film biografici dedicati a personaggi dello spettacolo e del cosiddetto jet set (nel 2008 realizzò La Vie en rose/La Môme dedicato a Edith Piaf; e nel 2014 Grace de Monaco, dedicato a Grace Kelly). Con il film Simone Veil – La donna del secolo, (Simone, le voyage du siècle), Dahan compie un salto di qualità realizzando un’opera di grande ambizione. Il film, uscito in Francia nel 2022, arriva nelle sale italiane con tre anni di ritardo, in occasione della giornata della memoria, il 27 gennaio 2025. Dalla durata di oltre due ore, il lungometraggio si configura come un biopic di ampio respiro, capace di intrecciare magistralmente la dimensione intima e quella pubblica della vita di una delle figure più emblematiche del Novecento francese ed europeo, una donna dallo straordinario impegno politico e civile, che la portò sul proscenio della politica mondiale dopo aver attraversato alcuni dei momenti più drammatici del XX secolo. ancora oggi di un'attualità ardente.

Il film, uscito in Francia nel 2022, arriva nelle sale italiane con tre anni di ritardo

Magistrata e prima presidente donna del Consiglio Superiore della Magistratura, Simone Veil diventa una statista negli anni Settanta, prima come Ministro della Sanità e in seguito come europarlamentare e prima donna presidente del Parlamento europeo, dal 1978 al 1982. Dahan riesce nell’intento di offrirci un ritratto che non è solo biografico, perché riesce sia a toccare le corde della nostra emotività, sia a dipingere un ampio affresco storico, fornendoci una chiave di lettura della storia del secolo breve attraverso lo sguardo unico di Simone Veil, interpretata da Elsa Zylberstein nella maturità e da Rebecca Marder nella giovinezza. Tecnicamente la scelta di ricorrere a due attrici anziché a una sola risulta forse anacronistica, ma alla fine molto felice. L’alternativa di utilizzare trucchi digitali, come ormai va di moda, ottenendo una sorta di ringiovanimento artefatto (il cosiddetto de-aging) non sempre ci ha convinto. Qui invece le due caratteriste riescono benissimo a rendere Simone Veil sia nella giovinezza sia nella maturità, come un vero simbolo di resilienza e resistenza, di umanità e impegno civile.

La narrazione si sviluppa secondo una struttura non lineare, con continui flashbacks e flashforwards (che poi sono le analessi e le prolessi della retorica classica), arrivando a intrecciare vari episodi dell’infanzia di Simone, i drammatici anni della deportazione ad Auschwitz, il difficile ritorno alla vita e le battaglie politiche che ne hanno segnato la carriera. Questa costruzione a mosaico, come afferma lo stesso regista, si basa su “rime emotive” che permettono di cogliere i parallelismi tra le diverse fasi dell’esistenza della protagonista. La scelta di abbandonare una cronologia rigida si rivela vincente, poiché consente di mettere in luce le connessioni profonde tra le esperienze personali di Simone e il suo impegno pubblico.

Il film esplora con delicatezza e calcolato riserbo il rapporto di Simone con la madre, figura centrale nella formazione del carattere della protagonista. La perdita della madre nei campi di sterminio (circostanza a cui pudicamente il regista si limita ad alludere, senza visualizzarla) rappresenta una ferita insanabile, ma anche un motore per il suo impegno futuro. Questa dimensione intima si affianca alle grandi battaglie politiche di Simone, che la portarono a essere la prima donna presidente del Parlamento Europeo e una delle principali fautrici della depenalizzazione dell’aborto in Francia. La sua avversione per l’ingiustizia, radicata nelle sofferenze personali e familiari, si traduce in una lotta incessante per la dignità umana e per i diritti universali. E non a caso la Veil si batté anche per la difesa dei diritti dei prigionieri algerini (negli anni della guerra di indipendenza algerina, dal 1954 al 1962) e dei pazienti affetti da H.I.V., in tempi in cui entrambi venivano evitati.

Elsa Zylberstein e Rebecca Marder offrono due interpretazioni complementari e straordinarie. La prima riesce a incarnare con intensità le contraddizioni di una donna ormai matura, apparentemente forte ma spesso vulnerabile, capace di affrontare con coraggio le difficoltà senza mai rinunciare alla sua umanità. La sua performance è un esempio di dedizione attoriale: l’attrice ha studiato a lungo i discorsi e gli atteggiamenti di Simone Veil, riuscendo a restituirne fedelmente la gestualità e il tono di voce.
Rebecca Marder, dal canto suo, interpreta una Simone giovane, segnata dalla tragedia ma già determinata a lottare per i suoi ideali. La sua rappresentazione della fragilità e della forza della protagonista è toccante, soprattutto nelle scene ambientate nei campi di concentramento, dove il dolore personale si fonde con la tragedia collettiva.
In effetti, una notevole differenza rispetto ai consueti biopics storici, edificanti, tranquillizzanti ed alieni da eccessi realistici sta nella scelta del regista di non voler risparmiare la crudezza delle scene ambientate nei Lager. Le sequenze che si soffermano sugli orrori dei campi di sterminio rappresentano uno dei momenti più intensi e drammatici del film, fino a ottenere effetti stranianti e perturbanti. Olivier Dahan sceglie però di evitare eccessi di compiacimento macabro o di indulgere al pulp, concentrandosi invece sull’esperienza emotiva dei personaggi.

La rappresentazione dell’arrivo ad Auschwitz è comunque di una crudezza sconvolgente: attraverso una lunga inquadratura senza stacchi, accompagnata dalla colonna sonora spezzata e angosciante (tale da sostituire l’odore e l’asfissia che Simone Veil descrive quando arriva ad Auschwitz, per usare le parole dello stesso regista), lo spettatore viene immerso in una dimensione che riesce a evocare l’orrore senza indugiare su dettagli morbosi. Le immagini dei corpi scheletrici, delle baracche e della disumanizzazione forzata colpiscono per la loro capacità di trasmettere il senso di abbandono e annichilimento. Particolarmente commovente è il contrasto tra i ricordi di una vita familiare serena e il gelo disumano del Lager, un elemento che permette di cogliere appieno l’abisso infernale attraversato dalla protagonista.

Meno drammatici ma non meno intensi sono i momenti del film in cui il regista si impegna a mostrare le difficoltà incontrate da Simone Veil nella sua carriera politica, in una Francia profondamente segnata da pregiudizi di genere e anche da residui di discriminazioni razziali mai del tutto obliterate. Nonostante le sue straordinarie capacità, Simone dovette affrontare resistenze e ostilità da parte di un establishment maschile e maschilista, spesso restio ad accettare il ruolo di una donna in posizioni di potere. Le scene che la vedono confrontarsi con i suoi colleghi al Ministero della Sanità e nell’Assemblea Nazionale restituiscono con efficacia il clima di un’epoca in cui il sessismo era ancora profondamente radicato. Tuttavia, il film, con toni forse un po’ troppo agiografici, celebra la determinazione di Simone nel superare questi ostacoli, sottolineando come la sua forza interiore e il suo senso di giustizia siano stati determinanti per portare avanti riforme storiche come la legalizzazione dell’interruzione di gravidanza, che tanto valse l’ostilità dell’opinione pubblica cattolica e l’avversione profonda da parte del Front National di Jean-Marie Le Pen.

Olivier Dahan ha curato molto anche gli aspetti della fotografia e la colonna sonora, coniugando sensibilità e rigore. L’uso di una palette cromatica che evolve nel corso del film accompagna lo spettatore attraverso le diverse epoche della vita di Simone: dai toni caldi e solari dell’infanzia ai grigi freddi dei campi di sterminio, fino ai colori più decisi della sua maturità politica. Le ambientazioni sono curate nei minimi dettagli, grazie anche al lavoro dello scenografo Christian Marti, che ha ricostruito con precisione sia gli interni domestici sia i luoghi istituzionali. Anche la scelta di rappresentare la disumanizzazione provocata dall’arrivo nel campo di sterminio, con l’uso della steadycam e attraverso un piano sequenza scandito da una colonna sonora inquietante risulta di grande efficacia: lo spettatore si sente immerso in una dimensione da incubo, ma allo stesso tempo profondamente reale.

Abbiamo comunque maturato la persuasione per cui il film non si limita a raccontare la vita straordinaria di Simone Veil, ma si propone come un monito per le generazioni future. Il suo impegno per i diritti delle donne, la costruzione di un’Europa unita e la memoria della Shoah sono temi che ricorrono ancora oggi continuamente. Quando la protagonista dichiara che “l’Europa è la pace”, questa frase risuona con particolare forza in un contesto storico in cui le tensioni internazionali mettono in discussione gli ideali di unità e cooperazione. Torna a merito di Olivier Dahan il fatto di riuscire a trasmettere questo messaggio senza retorica, grazie a una sceneggiatura che privilegia l’autenticità dei dialoghi e l’introspezione psicologica, e che celebra la vita di una donna straordinaria senza trasformarla in un’icona irraggiungibile, restituendoci la complessità di un personaggio che ha segnato la Storia con il suo coraggio e la sua visione. È un film che, atteso nella sale per la giornata della memoria, ci invita a ricordare il passato per costruire un futuro migliore, mantenendo viva la memoria di chi ha lottato per i diritti e la giustizia, in un’epoca in cui i valori di uguaglianza, dignità e solidarietà sono spesso messi in discussione. Come ha scritto il grande cantautore Peter Hammill in una lirica dedicata a Primo Levi (Primo on the Parapet), «There’s pain in remembrance,/but we must learn not to forget» (C’è dolore nel ricordo,/ma dobbiamo imparare a non dimenticare).

Un’ultima osservazione, che vogliamo aggiungere, anche se apparentemente estranea al contenuto del film. Abbiamo notato che si verifica molto frequentemente un equivoco, perfino tra persone ben informate. È semplicemente la tendenza a confondere la Simone Veil protagonista di questo film, statista e attivista per i diritti umani, con la filosofa Simone Weil, autrice di opere come L’ombra e la grazia. Nonostante la quasi omonimia, le due figure hanno vissuto vite profondamente diverse e rappresentano ambiti distinti: la politica e l’impegno civile da una parte, la riflessione filosofica e spirituale dall’altra. Sia Simone Veil (1927-2017), sia Simone Weil (1909-1943) appartenevano a famiglie di origine ebraica, ma le loro storie e il modo in cui hanno vissuto la loro identità sono molto diversi. Simone Veil visse direttamente le conseguenze dell’antisemitismo nella Francia occupata, fu deportata ad Auschwitz e la sua identità ebraica rimase legata al trauma della Shoah e all’impegno per la memoria. Simone Weil, invece, pur provenendo da una famiglia ebrea, si distaccò dalla religione e sviluppò un percorso spirituale che la portò ad avvicinarsi al cristianesimo, pur rimanendo sempre in una posizione di riflessione critica e personale. Questa condivisione dell’origine ebraica può essere un elemento che suscita confusione tra le due figure, ma è essenziale ricordare che i contesti e le prospettive con cui affrontarono la loro esistenza sono alquanto differenti. Ma oseremo dire che un legame segreto forse connette le due grandi figure femminili: la volontà di opporsi all’iniquità del potere.

Per la filosofa, il governo tirannico non si limita ad ambire al dominio totale di un popolo, ma aspira altresì a una completa soppressione delle facoltà di ragionamento, di pensiero e di attenzione anche tra gli stessi governanti, in modo che non abbiano esperienza di conflitto morale. «Il male abita nel cuore del criminale senza esservi sentito», osserva Simone Weil. E continua affermando che ciò che è terribile nel potere è il fatto che contiene l’illimitato. È terribile sia per il tiranno, che diventa pazzo, sia per chi è sottomesso, la cui umanità viene annullata. Riflette la filosofa: «C’è forse uno stoico al mondo che non potrebbe essere degradato dalle crudeltà più semplici, come la fame e le botte, se fosse in balia di un capriccio assolutamente senza legge?». La statista e attivista politica ha voluto quasi fare tesoro di queste amare riflessioni, rinvenendo nel suo impegno politico costante e determinato il miglior antidoto all’abuso del potere, dopo che le logiche totalitarie e autoritarie avevano plasmato la prima metà del secolo XX, quasi sommergendo e annichilendo ogni speranza per un futuro migliore. Un futuro che invece Simone Veil ha fatto di tutto per costruire.

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