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Roma “Zona 30”: la grande illusione della sicurezza made in Campidoglio
di Redazione

Da settembre Roma avrà la sua nuova attrazione urbana. Anzi, una superstar: il cartello “Zona 30”. Un simbolo di sicurezza che in teoria promette ordine e civiltà, ma che nella pratica rischia di consegnare alla Capitale un’ulteriore medaglia al merito per la lentezza. Del resto, per i romani la pazienza non è più una virtù: è un obbligo quotidiano, un corso accelerato di yoga su quattro ruote. E così, tra buche monumentali come il Colosseo e piani di traffico degni di un enigma esoterico, la “Zona 30” si candida a diventare l’ennesima trovata creativa di un’amministrazione che sembra avere un talento innato nel trasformare ogni problema in una sceneggiatura fantozziana. Sia chiaro: la sicurezza stradale non si discute. Nessuno mette in discussione il principio: rallentare riduce i rischi, lo dicono studi e statistiche, ed è ovvio che un pedone ha maggiori possibilità di salvarsi se viene urtato da un’auto a 30 all’ora piuttosto che a 50. Ma ridurre tutto a un limite di velocità rischia di essere l’ennesimo cerotto messo su una ferita aperta. Perché a Roma si cade nei crateri dell’asfalto, si inciampa nei marciapiedi divelti, si aspettano autobus che non arrivano. E la risposta è un cartello. Il problema non è mai il “cosa”, bensì il “come”. E qui il sospetto è che la “Zona 30” diventi presto un bancomat per il Campidoglio, una macchina perfetta per riempire le casse comunali a colpi di multe, più che uno strumento reale di prevenzione. Perché i cartelli, senza controlli e senza infrastrutture, finiscono per essere poco più che arredo urbano, mentre le telecamere e gli autovelox non mancheranno di ricordare agli automobilisti che la civiltà in questa città si misura quasi sempre in euro.
L’assessore alla Mobilità, Eugenio Patanè, ha difeso la scelta con parole rassicuranti: “Abbiamo un’emergenza in materia di sicurezza stradale: gli incidenti sono aumentati e abbiamo l’esigenza di ridurre in maniera drastica il numero di vittime”. Giusto, giustissimo. Peccato che Roma non sia Parigi, Madrid o Bonn, ma una metropoli di oltre 1.200 km quadrati, dove le infrastrutture arrancano e il trasporto pubblico riesce a malapena a reggere tre linee di metro in croce. Magari, e dico magari, sarebbe bastato qualche dosso intelligente e un po’ di manutenzione seria per strade che sembrano un colabrodo. Magari, e dico magari, sarebbe bastato asfaltare due buche senza aspettare il Giubileo, mettere in giro autobus che non vanno a fuoco come torce olimpiche e far funzionare i semafori in modo sensato invece che sincronizzarli per il torneo mondiale di “parti-stoppa-riparti”. E invece no, perchè la Capitale, si sa, preferisce l’estetica della toppa alla sostanza del restauro. Perché a dominare la scena sono spesso le suggestioni radical chic, quelle che vedono Roma trasformata in una Copenaghen immaginaria, popolata da ciclisti sorridenti e monopattini ordinati. Una visione che fa sognare gli uffici del Campidoglio, ma che resta completamente e ineluttabilmente scollegata dalla realtà dei romani. Quelli veri, che tutte le mattine si fanno il segno della croce prima di partire per il lavoro, pregando di arrivare in orario nonostante gli autobus in panne, i cantieri infiniti e le strade ridotte a slalom obbligati. Ecco allora che la “Zona 30” rischia di essere solo l’ultima etichetta luccicante appiccicata su una città che continua a ignorare i problemi veri: traffico ingestibile, trasporti pubblici al collasso, degrado diffuso e quartieri dimenticati. Il tutto mentre si disperdono fondi tra progetti faraonici e manutenzioni mai viste. E dimenticando che, in fondo, a Roma riuscire a raggiungere i 30 chilometri orari sul Lungotevere è, tutto sommato, un piccolo miracolo degno della città che ci ha abituati all’eterno sia nella storia che nel traffico.