Cultura
Quadriennale: "Fantastica"? Più che altro stanca
di Redazione

C'è un momento, verso la metà del percorso al Palazzo delle Esposizioni, in cui ti fermi e pensi: ma davvero è questo? Davvero dopo quattro anni di attesa, dopo tutti i proclami su come questa Quadriennale avrebbe finalmente raccontato gli orientamenti più attuali delle arti visive nel nostro Paese e blablabla, ci ritroviamo in mezzo a un campionario di citazioni più o meno riuscite, di omaggi più o meno consapevoli, di operazioni che puzzano di già visto lontano un miglio? La risposta, purtroppo, è sì. Il problema non è la qualità. È peggio. Sarebbe facile sparare sulla qualità tecnica degli artisti, ma sarebbe anche profondamente ingiusto. Qui dentro c'è gente che sa dipingere, fotografare, installare. Il punto è un altro, molto più scivoloso: manca il coraggio. Manca quella dannata urgenza che ti fa dire "dovevo farlo, non potevo non farlo". Al suo posto c'è un'aria da saggio di fine corso, da mostra di chi sa benissimo come si fa una mostra, quali sono i codici, quali i riferimenti giusti da invocare. Ma nulla più. Prendiamo Sassolino, che è probabilmente l'unico a salvarsi. Hunger non chiede permesso, non strizza l'occhio a nessuno. Si muove lento, pesante, e tu stai lì a guardarlo con una certa inquietudine perché capisci che quella roba potrebbe davvero farti male. È la vecchia storia: funziona quando senti il rischio, quando l'artista si è veramente esposto. Il resto è decorazione intelligente.
Hanno pensato bene di dividere tutto in cinque sezioni, affidate a cinque curatori diversi. Risultato: cinque mostre separate che convivono nello stesso palazzo senza parlarsi, senza litigare, senza produrre attrito. Ognuno s'è portato i suoi protetti, le sue fissazioni personali, i suoi vezzi. Bonami continua con questa ossessione per il ritorno alla pittura, come se ancora fossimo fermi ai dibattiti di vent'anni fa. Barbero si diverte a fare il professore che mette in fila autori e citazioni colte - guarda, Caravaggio! guarda, il minimalismo! - senza che da questi accostamenti nasca una scintilla. Troncone fa la sua mostra fashion sul corpo postumo, ma con quella patina da editoriale di rivista dove tutto è così tremendamente cool che diventa subito freddo. L'unica cosa interessante l'ha fatta Stocchi, lasciando campo libero agli artisti. Ma anche lì: interessante fino a un certo punto, perché poi ti accorgi che l'anarchia funziona quando hai personalità forti che si scontrano, non quando hai gente educata che si dispone armoniosamente nello spazio. Giulia Cenci apre con un'installazione che sembra uscita dal manuale "come fare l'artista contemporaneo": rami, teste umane, griglia metallica, atmosfera inquietante. Tutto giusto, tutto al posto giusto. E proprio per questo, mortalmente noioso. Nauman l'ha fatto meglio, con più ferocia, quarant'anni fa. Vai avanti e trovi Adelaide Cioni che fa Kounellis in versione aggiornata, ma senza quella rabbia che rendeva Kounellis Kounellis. Trovi Matteo Fato che dipinge come se la Transavanguardia fosse stata ieri e non roba degli anni Ottanta.
Trovi un sacco di fotografia che gioca con i generi della pittura, con le immagini analogiche recuperate, con la memoria frammentata: tutte cose che dieci anni fa potevano ancora sembrare fresche, ma che adesso fanno solo tenerezza. Sia chiaro: non è che siano brutti questi lavori. È che sono troppo giusti. Troppo consapevoli di cosa ci si aspetta da loro. Troppo calcolati per non disturbare nessuno e al tempo stesso strappare il consenso della critica compiacente. Poi arrivi alla sezione sul corpo e la tecnologia, e lì capisci quanto sia facile fare l'artista contemporaneo oggi. Prendi un tema che va di moda - il post-umano, l'ibrido, l'interfaccia uomo-macchina - lo tratti con un po' di estetica mutuata dalla pubblicità di lusso, aggiungi qualche citazione da filosofo francese nel testo di sala, e voilà: sei nell'aria dei tempi. Peccato che l'aria dei tempi la respiriamo tutti, ogni giorno, scrollando Instagram o guardando una serie Netflix. L'Arte, quella con la A maiuscola, dovrebbe fare qualcos'altro: andare oltre. Dovrebbe sporcare quella patina, inceppare il meccanismo, farti vedere quello che non volevi vedere. Qui invece tutto scivola via liscio, tutto è già pre-digerito, già confezionato per il consumo culturale rapido. I robot di Pugliese ballano il loro balletto carino. I mutanti di Agnes Questionmark sono fotogenici al punto giusto. Le installazioni parlano di DNA e di tessuti industriali con quel tono da TED Talk che ormai caratterizza tanta arte contemporanea: sembri profondo, sembri all'avanguardia, in realtà stai solo cavalcando l'onda senza bagnarti.
Alla fine, uscendo, capisci qual è il vero problema di questa Quadriennale: ha paura. Ha paura di prendere posizione, di escludere, di dire che certe cose non funzionano e altre sì. Ha paura di fare arrabbiare qualcuno, di tagliare fuori qualche galleria importante, di non rappresentare tutte le anime del contemporaneo italiano. Risultato: rappresenta tutte le anime e quindi nessuna. È un ottimo minestrone. Anzi, un minestrone gourmet. Ma sempre minestrone resta. Una di quelle mostre dove entra di tutto perché nessuno ha avuto il fegato di dire "questo no". E così finiscono dentro cinquantaquattro artisti che fanno più o meno tutti la stessa cosa: arte decorosa, tecnicamente inappuntabile, culturalmente ben informata, esistenzialmente inerte. Luisa Lambri fotografa gli angoli delle sculture minimaliste con quella precisione algida che già conosciamo. Benissimo. Roberto Cavitelli disegna a matita con una perizia che mozza il fiato. Perfetto. Il surrealismo torna di moda sul mercato internazionale? Ecco che rispuntano i neosurrealisti italiani, quelli che negli anni Ottanta nessuno filava e che adesso vengono rispolverati perché finalmente c'è l'alibi giusto. La pittura gestuale va forte nelle aste? Rieccoci con le superfici oltraggiate dal movimento materico. Il post-umano è il tema del momento? Prepariamo la sezione dedicata.
Non c'è mai il tempo zero, il momento in cui qualcuno fa una cosa perché sente l’urgenza creativa (non è una parolaccia, giuro) di farla, punto. C'è sempre il tempo uno, due, tre: il momento in cui la cosa è già stata fatta altrove, è stata legittimata, ed è quindi sicuro riproporla qui da noi con qualche aggiustamento locale. Il bello, o il brutto dipende dai punti di vista, è che la Quadriennale potrebbe essere altro. Potrebbe essere il luogo dove si rischia, dove si fa incazzare qualcuno, dove si dice: guardate, l'arte italiana contemporanea è questa roba qua, prendere o lasciare. Invece è diventata una vetrina dove tutti devono trovare il loro spazio, dove tutte le sensibilità devono essere rappresentate, dove il risultato finale deve accontentare tutti e quindi non entusiasma nessuno. La fiera del politically correct. Quattro anni di attesa per questo. Per un catalogo ragionato del già visto, per una rassegna di buone intenzioni, per una mostra che si guarda senza sentire né caldo né freddo. Una mezza cosa. Un po’ come quando dicono ad una donna: caruccetta. Pugno allo stomaco, perché non è né bella né brutta. Forse è questo il vero volto dell'arte italiana oggi: educato, competente, terribilmente annoiato di se stesso. E forse, più che "Fantastica", avrebbero dovuto chiamarla "Stanca".