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Pharus: Sostenibilità del debito USA: verità o panico passeggero?

 
Pharus: Sostenibilità del debito USA: verità o panico passeggero?
Il nuovo focus degli investitori globali ritorna ad essere la sostenibilità del debito pubblico americano. Già nella scorsa puntata avevamo sottolineato come il mercato obbligazionario potesse diventare il vero centro di attenzione degli investitori e che le tensioni sui tassi potessero rivelarsi determinanti per l'equilibrio dei mercati. A distanza di pochi giorni, non possiamo che constatare come quella riflessione fosse ben fondata.

Negli ultimi giorni si sono intensificati infatti i segnali di stress nel mercato obbligazionario statunitense, con il rendimento del Treasury a 30 anni che ha chiuso sopra il 5.10% per la prima volta dallo scorso ottobre, ed è stata soprattutto l’asta dei Treasury a 20 anni di martedì sera a far scattare l’allarme: scarsa domanda, rendimento più alto delle attese, copertura bassa e un tail ampio. Tutti elementi che riflettono una crescente esitazione degli investitori nel finanziare il debito Americano.

A rendere il quadro ancora più delicato, dopo il downgrade di Moody’s sul rating del debito USA è arrivata anche la notizia che con un voto serrato di 215 favorevoli contro 214 contrari, la Camera ha approvato il gigantesco disegno di legge fiscale e di spesa pubblica cosiddetto "Big Beautiful Bill" di Trump, che ora passa al senato e che potrebbe aumentare il deficit fino a portarlo ben oltre il 7% del PIL, con un impatto cumulato sul debito pubblico tra i 2,5 e i 5,7 trilioni di dollari nel prossimo decennio.
 
Il mercato inizia dunque a scontare uno scenario che fino a pochi mesi fa sembrava impensabile: il rischio di una crisi di fiducia nella capacità degli Stati Uniti di gestire in modo credibile e sostenibile il proprio debito pubblico. I Bond Vigilantes — quegli investitori pronti a vendere massicciamente obbligazioni per punire politiche fiscali ritenute insostenibili — sembrano quindi tornati in azione.

Anche a livello internazionale la pressione si fa sentire sul mondo dei tassi. I rendimenti a lungo termine sono saliti in blocco in Giappone, Regno Unito, Canada, Australia, tutti paesi con politiche fiscali espansive e banche centrali ancora accomodanti. È un campanello d’allarme globale che mette a nudo una dinamica chiara: quando deficit e debito si combinano a inflazione sopra il target delle banche centrali e politiche monetarie tiepide, il rischio sovrano comincia a essere prezzato diversamente.
 
Ma una crisi del debito Americano, con ovvie conseguenze a livello globale, è davvero imminente? Oppure siamo per l’ennesima volta davanti a un eccesso di reazione?

Per ora, i dati sull’inflazione continuano a mostrarsi contenuti. Il modello Inflation Nowcasting della Fed di Cleveland stima per il mese di maggio un’inflazione core allo 0,12% su base mensile, e un CPI headline intorno allo 0,23%. Numeri che sembrano escludere un’esplosione improvvisa dei prezzi, anche in presenza dei dazi già implementati. Il prezzo del petrolio debole contribuisce a mantenere sotto controllo le attese inflazionistiche. Tuttavia, come segnalato dal presidente della Fed, Powel, potremmo essere entrati in un’era di shock dell’offerta più frequenti e duraturi, con una maggiore instabilità delle dinamiche inflattive. 

Un tema interessante e legato a queste narrative, che ha destato l’attenzione degli investitori nell’ultimo mese è stato anche il comportamento anomalo della relazione tra dollaro e tassi d’interesse: per diverse settimane, abbiamo osservato un rialzo dei rendimenti dei Treasury accompagnato da un calo del dollaro. 

Una dinamica che ha fatto sorgere dubbi circa la solidità della valuta statunitense, alimentando timori di uno squilibrio strutturale, richiamato alla de-dollarizzazione e creato dibattito sulla fine dell’eccezionalismo americano e sulla loro perdita di fiducia e credibilità. 

Ma uno sguardo più ampio suggerisce che si tratta molto più verosimilmente di un’anomalia di breve termine che di un cambiamento strutturale. Non è infatti la prima volta nella storia che questa combinazione si verifica, e storicamente non è associata a performance particolarmente negative per l’S&P 500. Anzi, è proprio in fasi di rendimenti in crescita e dollaro debole che, in media, l’indice ha mostrato i ritorni più interessanti. Questo perché un dollaro più debole favorisce la crescita degli utili delle aziende americane con forte esposizione internazionale — che rappresentano circa il 40% del fatturato dell’S&P 500 — e in genere coincide con un contesto macro più favorevole. Quindi, e continueremo a ricordarlo, ogni dinamica sui mercati va sempre letta e ricondotta agli effetti sulla crescita economica ed in particolare sulla crescita degli utili aziendali.

Per i più scettici, vale la pena ricordare che il Tesoro americano, in uno scenario in ulteriore deterioramento, non starebbe certamente a guardare e potrebbe decidere per esempio di ricalibrare la composizione delle emissioni, privilegiando i titoli a breve per contenere l’impatto sui rendimenti di lungo periodo. È una sorta di controllo della curva dei rendimenti non dichiarato, che Janet Yellen aveva già sperimentato alla fine del 2023. Inoltre in caso di un deterioramento ancora più violento, tornerebbe persino in discussione il Quantitative Easing come strumento di ultima istanza per garantire la liquidità del mercato.

Nel frattempo, il mercato azionario ha reagito portando l’S&P 500 a chiudere la settimana in calo dell’1,6%, con il comparto tecnologico e i titoli growth maggiormente penalizzati. Le tensioni sul debito stanno infatti spingendo in alto i tassi reali, condizionando i multipli di valutazione. 

Una reazione dei mercati che non a caso arriva con Le valutazioni azionarie ormai tornate a collocarsi nella fascia medio-alta in tutte le principali aree geografiche, suggerendo che nel breve termine sia più probabile una fase di consolidamento piuttosto che un'ulteriore accelerazione dei prezzi. I mercati saranno focalizzati sulla prossima stagione degli utili aziendali e valuteranno attentamente gli effetti dei dazi sulle performance delle imprese e sugli indicatori macroeconomici. 

Tuttavia, avvicinandoci alla fine dell’anno, l’attenzione si sposterà verso la possibilità di futuri tagli dei tassi da parte della Federal Reserve, in un contesto in cui le tensioni commerciali saranno probabilmente superate e l’amministrazione americana potrà concentrarsi nuovamente su elementi più favorevoli agli investitori, primo fra tutti la deregulation (un tema particolarmente amato dai mercati azionari). L’amministrazione Trump si sta infatti rendendo sempre più conto che l’unico modo per rendere il debito sostenibile è crescere di più, ed i nuovi provvedimenti in termini di deregolamentazione sono in effetti pro-crescita.

In conclusione, non possiamo escludere che il tema del debito pubblico USA si trasformi in una delle principali variabili di mercato nei prossimi mesi. Ma come spesso accade, le crisi possono diventare anche opportunità e come già avvenuto in passato, potrebbe creare punti di ingresso interessanti per l’investitore paziente.
 
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