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Mercati ottimisti e politica monetaria più cauta: equilibrio delicato per gli USA
di Andrea Delitala, Head of Multi Asset Euro di Pictet Asset Management

Il mese di settembre ha registrato una buona performance dei mercati finanziari, con guadagni intorno al 5% per l’azionario globale e risultati positivi anche sul fronte obbligazionario: circa +0,5% per i governativi europei e +1% per i Treasury statunitensi. Nei mercati emergenti, le performance sono state ancora più robuste, pari a circa +10% per le azioni e +2% per le obbligazioni. L’ottimismo degli investitori, in particolare verso l’economia americana, è legato alla solidità della crescita. Il dato definitivo del PIL USA del secondo trimestre si è attestato al 3,8% annualizzato, ben oltre le attese. Ancora una volta, tuttavia, si osserva una certa incostanza nelle importazioni, calate del 30% dopo un aumento del 40% nel trimestre precedente: un andamento influenzato dal tentativo delle imprese di anticipare l’imposizione di nuove tariffe. Questo comportamento distorce la lettura dei dati e rende meno chiara la reale traiettoria dell’economia statunitense.
Fa comunque ben sperare la dinamica dei consumi (+2,5%), a fronte di investimenti ancora deboli (-14%) e concentrati quasi esclusivamente ai settori legati all’intelligenza artificiale e ai data center. Lo shutdown governativo di inizio ottobre potrà sottrarre qualche decimale di crescita nel terzo trimestre, ma l’effetto dovrebbe essere riassorbito nel quarto o all’inizio del prossimo anno. Nel complesso, continua a prevalere una sensazione di resilienza dell’attività economica, senza che le tariffe si siano tradotte in un impatto inflattivo significativo.
Tuttavia, rimane da capire se l’economia americana abbia già assorbito, meglio del previsto, l’effetto stagflattivo dei dazi oppure se le conseguenze negative, in termini di crescita e inflazione, debbano ancora manifestarsi. Gli economisti hanno migliorato le loro previsioni: il consenso per il 2025 è ora intorno all’1,8% per la crescita e al 2,8% per l’inflazione, con una revisione di circa mezzo punto rispetto al mese di maggio. Anche le nostre stime sono state migliorate, ma restiamo cauti: il rischio che l’inflazione resti in area 3% in un contesto di ripresa economica e stimolo fiscale rimane concreto. Gli effetti delle misure fiscali dell’amministrazione Trump – i tagli alle imposte e gli investimenti infrastrutturali – saranno visibili solo tra la fine del 2025 e l’inizio del 2026.
Sul fronte della politica monetaria, la Federal Reserve ha ripreso a settembre il ciclo di allentamento monetario interrotto a fine 2024, dopo circa un punto percentuale di tagli estivi. Nonostante gli economisti della banca centrale statunitense abbiano migliorato le previsioni per crescita ed inflazione per il 2026 nel Summary of Economic Projections, nella riunione di settembre il FOMC ha ridotto i tassi di 25 punti base, portandoli nel range 4%-4,25%. Inoltre, il comitato ha anche abbassato il target di fine anno al 3,6% dal 3,9% precedente, ipotizzando quindi altre due riduzioni – una a fine ottobre e una a dicembre – prima di rallentare il ritmo nel 2026 e nel 2027 per raggiungere il tasso neutrale del 3%. Secondo il presidente Powell, questa scelta riflette la necessità di bilanciare il rischio di un’inflazione ancora elevata con quello, crescente, di un rallentamento dell’occupazione. Dopo i dati più deboli su assunzioni e partecipazione al lavoro di giugno, luglio e agosto, la Fed ha ritenuto opportuno adottare un approccio più prudente. Tuttavia, l’offerta di lavoro resta frenata dai limiti imposti all’immigrazione, e ciò rende più incerta la traiettoria della disoccupazione.
A complicare ulteriormente il quadro si aggiunge il crescente peso politico sulla banca centrale. A settembre, per la prima volta l’economista Stephen Miran – il nuovo membro del Board nominato da Trump –ha partecipato ad una riunione della Fed, esprimendo apertamente la volontà di tagliare i tassi di un ulteriore punto e mezzo entro fine anno. Per ora si tratta di una posizione isolata, ma il prossimo rinnovo di Powell e di altri membri del Board potrebbe accentuare la pressione politica sulla Fed, con potenziali implicazioni per la sua indipendenza e credibilità. Una perdita di fiducia nell’istituto si rifletterebbe immediatamente nelle aspettative di inflazione, ma anche in un irripidimento delle curve dei rendimenti e in una maggiore volatilità valutaria.
Uno degli obiettivi impliciti della cosiddetta Trumpnomics è rafforzare la competitività dell’industria americana tramite un indebolimento delle ragioni di scambio – ossia del rapporto tra prezzi dell’import e dell’export. Le tariffe, già in grado di incidere sui prezzi fino al 10–18%, unite ad un dollaro più debole, vanno nella stessa direzione, rendendo più convenienti le esportazioni statunitensi. Tuttavia, questo approccio rischia di compromettere la fiducia nei confronti della Fed e di aumentare l’incertezza sui mercati obbligazionari. Riteniamo quindi probabile un progressivo indebolimento del dollaro verso area 1,25 contro l’euro nel 2026, al di là del rimbalzo tattico che potrebbe riportarlo temporaneamente verso 1,15. La nostra esposizione alla valuta americana rimane strategicamente ridotta rispetto alla media storica, in alcuni periodi anche azzerata, a favore dell’oro – direttamente o attraverso società minerarie - e di una diversificazione valutaria più contenuta rispetto all’euro, che resta la nostra valuta di riferimento.
Sul fronte azionario, nonostante valutazioni ancora elevate – con il mercato statunitense scambiato a circa 23 volte gli utili a 12 mesi – i risultati delle società restano solidi, con una crescita prevista degli utili intorno all’8%. Continuiamo a privilegiare i settori tecnologico e finanziario, sostenuti dal ciclo dell’intelligenza artificiale e da margini ancora robusti. Gli investimenti legati all’AI, pur concentrati e di grande portata, non mostrano ancora i tratti di una bolla speculativa: mancano infatti gli eccessi tipici di fasi finali di ciclo, come un’ondata di IPO o un boom di acquisizioni, che potrebbero invece manifestarsi nel 2026. Sull’azionario europeo manteniamo un posizionamento neutrale, ma potremmo diventare più costruttivi una volta che la Francia avrà superato la fase di incertezza politica. Abbiamo invece incrementato il peso dei mercati emergenti, sia lato azionario che obbligazionario, sostenuti da valutazioni più interessanti e da una crescita economica in progressivo consolidamento.
Sul mercato obbligazionario, continuiamo a privilegiare i titoli europei ed emergenti rispetto a quelli statunitensi, mantenendo tuttavia una duration inferiore alla media dopo i forti guadagni estivi che hanno portato il rendimento del Treasury decennale al 4%.
In sintesi, lo scenario resta costruttivo ma fragile. L’economia americana continua a sorprendere per la sua resilienza, sostenuta da politiche fiscali espansive e da un mercato del lavoro ancora solido. Tuttavia, la perdita di indipendenza della Federal Reserve e un eventuale indebolimento del dollaro rappresentano rischi da monitorare con attenzione nei prossimi mesi.
Le informazioni, opinioni e stime contenute nel presente documento riflettono un’opinione espressa alla data originale di pubblicazione e sono soggette a rischi e incertezze che potrebbero far sì che i risultati reali differiscano in maniera sostanziale da quelli qui presentati.