L'idiozia da sempre è difficilmente catalogabile, quando, dopo le battute salaci e gli sfottò, essa mette mano alle armi. Che possono essere improprie, ma anche mortifere. Come il mattone che ieri ha ucciso l'autista del pullman che stava riportando a casa, a Pistoia, i tifosi di una squadra di basket che aveva appena giocato con (non ''contro'') quella di Rieti.
La storia, oggi, è sulle prime pagine di molti quotidiani mentre è partita, come sempre accade, la geremiade di chi urla, condanna, piange. Tanto sono parole che - una volta esaurita la spinta emozionale, poche ore dopo che davanti ad una bara tutti si saranno battuti il petto, ricorrendo alle solite frasi di circostanza - finiranno nel crudele tritacarne mediatico. Quello che dimentica l'oggi sempre e comunque, perché altre notizie più recenti meritano d'essere commentate.
Perché, come sperava il protagonista di ''Notting Hill'', con i giornali di oggi domani si fodereranno le pattumiere.
Ma forse una riflessione che esca alla ritualità di casi come questo bisogna farla e riguarda la deriva violenta che ha assunto lo sport, ad ogni livello, non come elemento isolato, ma come filiazione della nostra società, dove tutto è buono per gridare, urlare, insultare e, se ci si riesce, anche aggredire e picchiare.
La morte dell'autista è solo l'ultimo capitolo di un libro che non riesce proprio a scrivere la parola fine, quello della violenza che, a Rieti, è stata fisica e che costituisce fortunatamente un caso raro, sebbene non l'unico.
Al contrario la violenza delle parole è quotidiana, usandole come armi nelle contrapposizioni, come accade nella politica. Le stesse contrapposizioni che si registrano anche nei rapporti umani, quelli di ogni giorno, inquinando la società.
Esageriamo?
Verrebbe da dire che lo speriamo, ma non è così. La violenza, come quella verbale a noi più consueta, è il tentativo di affermarsi sull'altro, è il modo spiccio di sostenere le proprie idee, è la scorciatoia per dire ''io sono meglio di te'', anche se spesso è solo un desiderio, puntellato sul nulla.
Noi, tutti noi, dovremmo ribellarci, dovremmo imporci ragionevolezza e rispetto, ma come possiamo farlo se chi ci rappresenta, ad ogni occasione, travalica questi recinti per mettere mano all'insulto?
E poi ci dovremmo meravigliare se siamo costretti a fermarci a riflettere su morti inconcepibili, come sono tutte quelle dei giovani, per mano di loro coetanei che parlano solo il linguaggio della sopraffazione?
Anche in questi giorni, quando il governo dovrebbe giustamente celebrarsi, per come farà, per avere toccato un piccolo record di durata e avere guadagnato la stima internazionale, la commedia della politica sta toccando picchi di intolleranza inaccettabili, mentre gli scambi di contumelie tra opposti schieramenti dovrebbero fare riflettere sull'inadeguatezza di una certa (non tutta) classe dirigente che non coglie la stanchezza della gente, davanti a risse verbali che sembrano alimentarsi da sé stesse.
Un post sui social; un commento estrapolato da un contesto più ampio e magari di segno avverso; l'interpretazione semantica della frase detta da un avversario politico sottoposta ad una dissezione, ad un ''taglia e cuci'' vecchio come l'alba del mondo: tutto è un'arma, tutto serve.
E se invece tutti (e in questo ''tutti'' vanno messi, d'ufficio i giornalisti) abbassassero i toni e capissero che, oggi come oggi, il solo faro di questo disgraziato Paese è quell'uomo dai capelli bianchi che dal Quirinale ci invita alla ragionevolezza e che dovrebbe essere un esempio?
Il presidente Mattarella è rimasto lì, a parlare e ammonire, e speriamo che continui a farlo fino alla conclusione del secondo mandato, perché ha dimostrato di essere non un arbitro, ma un garante della Costituzione e con essa della nostra vita.