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Kairos Partners SGR - Market Flash di martedì 2 aprile 2025

di Alberto Tocchio, head of Global Equity and Thematics
 
Kairos Partners SGR - Market Flash di martedì 2 aprile 2025

Siamo giunti alla fine di un trimestre che verrà ricordato a lungo, segnato da eventi geopolitici rilevanti che, forse come mai prima, stanno influenzando profondamente il comportamento dei mercati. In questo aggiornamento, ci concentriamo in particolare sulla questione dei dazi e sui riflessi già visibili sull’economia reale, proponendo anche due idee di investimento di medio periodo.

Nella prima parte della scorsa settimana sembrava emergere una certa normalizzazione nelle performance tra Stati Uniti e resto del mondo, dopo un periodo di forte divergenza. Tuttavia, negli ultimi giorni si è tornati a una decisa fase ribassista: i mercati americani si avvicinano nuovamente ai minimi di metà marzo, con l’S&P 500 in calo di oltre il 5% da inizio anno e il Nasdaq in perdita di circa il 10% — uno dei peggiori trimestri degli ultimi anni. Anche l’Europa ha iniziato a scendere, toccando il suo massimo proprio nel giorno in cui il piano fiscale è stato approvato dalla Bundestag. Da allora, il DAX ha perso il 4%, mentre l’MDAX (indice delle medie capitalizzazioni tedesche) ha segnato un calo superiore al 7%.

A livello settoriale, i titoli difensivi hanno tenuto meglio, mentre i "Magnifici 7" continuano a mostrare debolezza. Il settore Tech e AI, infatti, rifletteva uno scenario troppo ottimistico con un posizionamento già elevato. Dopo l’annuncio di Deepseek, una serie di notizie ha contribuito a peggiorare il sentiment: Nvidia è scivolata dietro Microsoft come seconda società per capitalizzazione al mondo, e l’IPO di Coreweave, avvenuta venerdì scorso, non ha risollevato l’umore degli investitori, con il titolo che ha persino scambiato sotto il prezzo di collocamento.

La volatilità sull’azionario è tornata a salire, con il VIX di nuovo sopra quota 20. Anche gli spread sugli High Yield sono aumentati, con il CDS statunitense quasi a 400 punti base. Questo dimostra che, nonostante gli indici USA siano su livelli simili a quelli di metà marzo, oggi il mercato è ancora più preoccupato.
Il primo tema che vogliamo affrontare è quello cruciale dei dazi, che stanno già frenando l’economia. Nell’ultimo mese, Trump è passato dalle minacce all’effettiva applicazione di tariffe, ribattezzando la giornata di oggi come il “Liberty Day” e proclamando l’inizio di una nuova era per gli Stati Uniti. Tuttavia, finora, gli effetti osservati sono stati l’opposto. I dazi introdotti la settimana scorsa sul settore automobilistico sono stati i primi a colpire direttamente l’Europa, e si prevede che ne seguiranno altri su alimentare e farmaceutico.

Anche se esiste margine per negoziazioni bilaterali, i mercati temono l’impatto economico complessivo e la possibilità di una “retaliation”, ovvero una guerra commerciale con risposte da parte dei paesi colpiti. L’impatto stimato è di circa lo 0,5% del PIL sia per l’Europa che per gli Stati Uniti, a cui si aggiunge un ulteriore 0,5% legato all’incertezza generale: un impatto tutt’altro che trascurabile.

I dazi, ai livelli più alti dal dopoguerra, stanno influenzando anche le aspettative d’inflazione: gli inflation swap USA stimano una media del 3,3% nei prossimi due anni, il livello più alto dal 2022. Inoltre, nei primi mesi dell’anno si è verificata un’esplosione delle importazioni, una corsa anticipata per evitare gli effetti delle tariffe. Questo ha generato un deficit commerciale senza precedenti in un arco di tempo così breve. Tra i beni maggiormente importati figura anche l’oro, che sta salendo in modo parabolico, con una performance annua di +40% simile a quella vista solo negli anni ’70, durante l’inflazione a doppia cifra.

Si stima che i nuovi dazi sulle auto potrebbero far salire i prezzi delle vetture nuove in USA tra i 5.000 e i 12.000 dollari. Considerando che circa il 50% delle auto vendute negli Stati Uniti è importato, si prevede un impatto anche sul mercato dell’usato. Questo potrebbe destabilizzare ulteriormente un settore già sotto pressione, soprattutto a causa della concorrenza asiatica, che domina la produzione di componenti per veicoli elettrici. Hyundai e Kia, ad esempio, generano più ricavi in USA che in patria, e i loro impianti statunitensi coprono solo un terzo della domanda locale.

Ciononostante, Trump sta ottenendo alcuni risultati: il Vietnam ha già tagliato le tariffe per evitare misure punitive dagli USA, e l’India sembra seguire lo stesso percorso. È probabile che altri paesi si aggiungeranno. L’Irlanda, ad esempio, sarebbe particolarmente esposta nel settore farmaceutico: dazi del 25% sulle esportazioni potrebbero costarle fino al 4% del PIL.

Restiamo quindi in attesa di sviluppi nelle prossime ore, perché la situazione è in rapida evoluzione. Prima di analizzare più nel dettaglio l’impatto macroeconomico di questa incertezza, segnaliamo un effetto curioso: le tensioni sui dazi stanno creando anomalie anche sulle materie prime. In particolare, sul rame si è aperto un divario record tra i prezzi dei contratti scambiati a New York e quelli a Londra, dovuto proprio alla corsa alle scorte.

Sarebbe riduttivo attribuire il rallentamento dell’economia statunitense esclusivamente all’impatto dei dazi. Alcuni fattori sono infatti ciclici, e la ridotta immigrazione da sola ha già comportato una contrazione del PIL di circa 40 punti base. In questa fase mancano inoltre stimoli fiscali. Tuttavia, è evidente che le politiche protezionistiche di Trump stanno accelerando in modo significativo un rallentamento che, in assenza dei dazi, si sarebbe manifestato in maniera molto più graduale.

Partendo dai consumi, i recenti dati sulla fiducia dei consumatori sono scesi ai livelli più bassi degli ultimi dieci anni (escludendo il periodo pandemico). Le aspettative sull’inflazione sono salite ai massimi dal 1993, e cresce anche la preoccupazione per il mercato del lavoro: la percentuale di chi si aspetta meno posti disponibili nei prossimi sei mesi è in netto aumento.

Anche sul fronte aziendale la situazione si è deteriorata rapidamente nell’ultimo mese. Secondo un’indagine condotta tra CEO e CFO statunitensi, la fiducia è crollata ai minimi dal 2011: ben tre quarti degli intervistati segnalano gravi impatti dei dazi sul proprio business, mentre il divario tra aspettative negative e situazione attuale ha raggiunto i massimi dagli anni ’80. A confermare questo clima di deterioramento, anche gli indici PMI del settore servizi rilevati dalle Fed di Philadelphia e Richmond evidenziano la maggiore contrazione degli ultimi 15 anni, escludendo il periodo Covid.

Non sorprende, quindi, che la stima del PIL in tempo reale della Fed di Atlanta sia scesa rapidamente: da +2% a fine febbraio a un sorprendente -2,8% attuale. Una variazione di simile entità in così poco tempo è rarissima. Il mercato, finora molto focalizzato sulle notizie relative ai dazi, inizierà ora a osservare con estrema attenzione anche i dati macroeconomici. Già a partire da venerdì, il dato sui Payrolls potrà chiarire se ci troviamo in una fase di “soft landing” (già in parte prezzata) o se, al contrario, si andrà incontro a un “hard landing” con il rischio concreto di recessione nei prossimi mesi.

Nel frattempo, purtroppo, il disagio sociale continua a crescere. La famiglia media americana registra un tasso di risparmio inferiore alla media degli ultimi anni, è esposta a maggiore incertezza, subisce l’aumento dei costi e un conseguente incremento nei mancati pagamenti di prestiti e carte di credito. Circa 10 milioni si troveranno presto a dover riprendere i pagamenti dei propri debiti universitari, dopo la fine del freeze pandemico, con il rischio di nuove restrizioni al credito.

Trump, a meno di tre mesi dall’inizio del mandato, registra un netto calo di popolarità, un dato che richiama quanto accaduto nei primi mesi del suo precedente mandato. Questo lascia pensare che la sua strategia consista nel generare forti divisioni, da utilizzare successivamente come leva di negoziazione politica.

Nel breve periodo, è probabile che dovremo convivere con un mercato nervoso e volatile, reso ancor più fragile dalla bassa liquidità osservata nelle ultime settimane. Il posizionamento sul mercato statunitense è ora decisamente più scarico rispetto a inizio anno. Le coperture sui portafogli hedge fund sono numerose, mentre le valutazioni dei “Magnifici 7” rispetto all’S&P 500 si sono ridotte ai minimi degli ultimi otto anni. Potremmo essere vicini a un rimbalzo tecnico, ma è probabile che gli investitori di medio-lungo periodo attendano segnali più chiari prima di rientrare con convinzione.

In Europa, invece, la situazione appare diversa. Dopo una correzione fisiologica, i fondamentali restano solidi e gli stimoli fiscali continuano a rappresentare un forte catalizzatore. La Germania è chiamata a una sfida cruciale: saper impiegare in modo efficiente le imponenti risorse appena stanziate. Le prime indagini sul sentiment delle imprese, successive agli annunci fiscali, indicano un miglioramento, seppur più contenuto rispetto alle attese. Ricorderei che il pacchetto tedesco, distribuito in più anni, equivale a oltre il 20% del PIL del paese, una manovra straordinaria, resa possibile da un rapporto debito/PIL ancora intorno al 60%.

La Germania sta quindi sfruttando il margine fiscale accumulato dopo anni di austerità, a differenza del Regno Unito, dove l’attuale politica economica limita fortemente la flessibilità di bilancio. La scorsa settimana, Londra ha annunciato tagli ai sussidi sociali per circa 5 miliardi di sterline, colpendo le fasce più vulnerabili. Una manovra che rischia di essere completamente neutralizzata dall’eventuale introduzione di dazi statunitensi del 20%.

In questo contesto, riteniamo che alcune società tedesche a media e bassa capitalizzazione possano tornare a sovraperformare il mercato e i pari britannici, sostenute da fondamentali migliori e da un contesto fiscale decisamente più favorevole.

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