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Il commento sui mercati di Angelo Meda: i cicli di Milankoviç

I movimenti della Terra si dividono in due categorie: i moti principali – ovvero la rotazione (che dura 24 ore e definisce i giorni) e la rivoluzione (che dura 365 giorni e definisce le stagioni) – e i moti millenari, ossia i movimenti fatti dal nostro pianeta nel corso di migliaia di anni che producono mutamenti importanti nell’ecosistema (causano ad esempio glaciazioni e spostamenti tettonici), ma che sono ininfluenti nel corso di una vita umana, in quanto richiedono tempi molto lunghi per vederne gli effetti.
Questi effetti, che richiedono centinaia di migliaia di anni per influenzare il clima del pianeta Terra, sono stati studiati dallo scienziato serbo Milutin Milankoviç. Tra fine ’800 e inizio ’900 ha elaborato un’analisi dei cicli (detti appunto di Milankoviç) che hanno determinato le glaciazioni nella storia terrestre, identificando tre moti (eccentricità orbitale, inclinazione assiale e precessione dell’orbita terrestre) che ogni circa 100.000 anni causano cambiamenti importanti nel clima del pianeta. È opportuno precisare che siamo in una fase in cui il modello non prevede per i prossimi 25.000 anni una glaciazione.
Sui mercati azionari, invece, i cicli sono molto più rapidi: un trend rialzista tende a durare meno di un decennio, mentre uno ribassista solitamente è molto più rapido e si esaurisce in 2-3 anni. All’interno, però, abbiamo delle fasi che possono anche essere violente di rotazione, cambiando repentinamente attività finanziaria, settore e area geografica.
Il 2025 è iniziato con un forte cambio di rotta fuori dagli USA, sia in termini valutari (il dollaro perde il 13% da inizio anno) sia in termini azionari (la borsa USA era arrivata in dollari a circa 25 punti percentuali di sottoperformance), facendo dubitare qualche operatore sulla cosiddetta “eccezionalità americana”, ovvero la supremazia del Paese a stelle e strisce rispetto al resto del mondo, non solo dal lato finanziario.
Recentemente, in concomitanza con la riaccensione delle tensioni geopolitiche e con l’avvicinarsi della scadenza del rinvio dei dazi, stiamo assistendo a un ritorno dell’azionario americano, che batte il resto del mondo (di pochi punti percentuali finora). Rimane, invece, un trend negativo sul dollaro, probabilmente anche incentivato dall’amministrazione americana che preferisce una valuta debole per stimolare le esportazioni.
Tutto questo rientra nei cicli di mercato di breve periodo, legati a fattori tecnici e a flussi che possono invertirsi rapidamente nel corso di poche settimane: i grandi investitori americani si trovavano a inizio 2025 con un mercato azionario ai massimi, una valuta forte e valutazioni relative elevate del mercato domestico, per cui veniva quasi naturale spostare una piccola parte della loro allocazione al di fuori dei confini. Con tensioni geopolitiche da una parte e un Giappone che vedeva tassi di interesse in forte salita per l’uscita da una politica monetaria estremamente accomodante, era prevedibile che questi flussi andassero verso l’alleato storico americano (l’Europa) in prima battuta e verso i mercati emergenti una volta svalutata anche la moneta (Cina esclusa a causa delle tensioni commerciali in atto).
Non sorprende che, dopo il più grande gap di performance della storia tra i due mercati, ci sia una fase di assestamento, specialmente se riemergono incertezze su eventuali nuove guerre e sull’esito delle trattative bilaterali tra i vari Paesi e gli USA sui dazi: gli stessi investitori americani che avevano diversificato rimpatriano parzialmente in casa le attività.
Se fosse però un rientro di capitali strutturale, avremmo anche una valuta in rafforzamento. Al contrario, il “biglietto verde” continua a svalutarsi, spinto anche dalla volontà di Trump di sostituire in anticipo il presidente della banca centrale Powell, per avere una persona più disposta a ridurre i tassi di interesse per stimolare l’economia, in sofferenza anche per le incertezze create dalla sua amministrazione con l’imposizione dei dazi universali del 10%. Il fatto che il dollaro continui la sua discesa fa pensare che questi rimpatri siano solo di natura tattica e che rimanga la volontà di ampliare gli investimenti al di fuori dei confini da parte degli investitori USA.
La debolezza del dollaro aiuta comunque anche la borsa domestica a tornare sui massimi storici, indipendentemente dallo scoppio delle tensioni tra Iran e Israele e dall’intervento USA, un qualcosa che era visto come il cigno nero che poteva portare a un crollo dei mercati tra i vari fattori di rischio identificati dalle case di investimento a inizio dell’anno in corso. Tutto ciò avviene perché si sta evitando l’escalation del conflitto, il blocco dello stretto di Hormuz e isolando l’Iran dai partner storici: il risultato è l’indice di volatilità VIX, il cosiddetto “indice della paura”, che torna verso i minimi dell’anno a quota 15, rendendo conveniente l’utilizzo di strategie di copertura.
Quando tutto sembra “rose e fiori” bisognerebbe stare allerta e proteggere i rendimenti: è semplice spiegare i motivi di uno storno solo dopo che è successo, mentre è molto difficile vedere le nubi in avvicinamento. Al momento non sembrerebbero esserci ragioni per un crollo, al contrario si vedono diversi motivi per una salutare fase di consolidamento, in vista di una stagione degli utili che non sembra destinata a creare sorprese e con i buyback che andranno in pausa.
Prepariamoci quindi a qualche piccolo ciclo di paura e sollievo, di ritorno e fuga dagli USA e di fiammate inflazionistiche più o meno marcate. I fattori di lunghissimo periodo alla Milankoviç (come debiti pubblici, invecchiamento della popolazione, bassa crescita demografica e crescita della produttività in forte calo) rimangono elementi da monitorare nel tempo.