C’è chi ruba gioielli, chi quadri di Caravaggio e chi, più prosaicamente, un cappellino da tennis. Ma non un cappellino qualsiasi: quello firmato da Kamil Majchrzak, orgoglio polacco con la racchetta. A compiere l’ardita impresa non è stato un ladruncolo da periferia, bensì Piotr Szczerek, facoltoso CEO dell’azienda di pavimentazioni Drogbruk. Perché, si sa, certe passioni travolgono anche i milionari: chi di noi, davanti a un cappellino autografato, non sentirebbe l’irrefrenabile impulso di sottrarlo dalle mani di un bambino? La scena è andata in onda agli Us Open, immortalata dalle telecamere e amplificata dal web. Mentre il piccolo reclamava l’agognato trofeo, Szczerek, con la foga di un novello Lupin, ha infilato il cimelio nella borsa della moglie. Il video, ça va sans dire, ha fatto il giro del web. Ed ecco che il manager si è ritrovato in un battibaleno asfaltato, guarda un po’, dalle recensioni negative piovute sulla sua azienda. Uno tsunami digitale, che ha costretto il magnate a rifugiarsi nel bunker del silenzio social, non prima di aver lasciato al mondo un testamento morale degno di un filosofo da bar sport: “Chi prima arriva, meglio alloggia”. Una massima che neanche Orazio, se fosse stato cliente del Black Friday, avrebbe saputo scolpire con tanta sintesi. Il post, poi rimosso con la rapidità con cui era stato scritto, conteneva anche un tocco di vittimismo da manuale: “È solo un cappello, non facciamo uno scandalo globale”. Naturalmente, lo scandalo globale era già servito, condito con l’ennesima minaccia di azioni legali contro gli utenti “offensivi”: un capolavoro di paradosso contemporaneo, da inserire nel manuale del perfetto autogol mediatico. Nel frattempo il tennista Majchrzak, suo malgrado coinvolto, ha rimesso le cose a posto.
Rintracciato il piccolo derubato, gli ha consegnato un nuovo cappellino autografato, sorridendo in una foto condivisa su Instagram come a dire: “Tranquillo, nel nostro Paese c’è ancora qualcuno che sa distinguere tra fair play e furto con destrezza”. Con l’eleganza di chi, in campo, vince senza bisogno di sgambetti. C’è un dettaglio gustoso che chiude il cerchio: Szczerek non è un estraneo al mondo del tennis, anzi. È uno sponsor della federazione polacca e grande sostenitore della disciplina. In pratica, finanzia il gioco, lo celebra, lo ama… salvo poi, davanti a un cappellino destinato a un bambino, trasformarsi nel Gordon Gekko del merchandising sportivo. Il cappello, insomma, è tornato al legittimo proprietario. Resta la macchia di un gesto decisamente meschino, che ha fatto il giro del mondo restituendoci una lezione che nessuna business school insegnerà: puoi accumulare fortune, sponsorizzare tornei, comprare mezza Varsavia ma basta un cappellino trafugato ad un bambino per rovinarti la reputazione. Morale: in certi casi non è l’abito a fare il monaco, ma il cappellino a seppellire il manager.