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Gli Stati Uniti rallentano mentre l’Europa accelera
di Paul Doyle, Responsabile azionario large cap Europa di Columbia Threadneedle Investments

Stati Uniti
Le aspettative di crescita per gli Stati Uniti all'inizio del 2025 si sono rivelate troppo ottimistiche. Le stime di crescita globale sono state riviste al ribasso, passando dal 3% al 2,7%, mentre per gli Stati Uniti la revisione è stata più significativa, con una riduzione di 0,6 punti percentuali, arrivando all'1,5%. Questo rallentamento non ha tuttavia compromesso il mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione è aumentato, ma in misura inferiore rispetto alle precedenti fasi di rallentamento. I sostenitori di uno scenario positivo sottolineano che l’economia statunitense è oggi più orientata ai servizi e meno ciclica, e che l’indebitamento del settore privato rimane sotto controllo, inferiore ai livelli precedenti la crisi finanziaria globale. Inoltre, il sistema bancario è meglio capitalizzato e l’intelligenza artificiale (AI) sta trasformando profondamente l’economia.
Nonostante l’innalzamento delle tariffe al 17% – un livello che non si registrava dai tempi della Grande Depressione – gli effetti più rilevanti della guerra commerciale non si sono ancora pienamente dispiegati sull’economia statunitense. A eccezione del comparto automobilistico giapponese, i prezzi al dettaglio non hanno mostrato incrementi significativi, circostanza che lascia intendere come una parte consistente dei maggiori costi sia stata assorbita direttamente dalle imprese. Una quota rilevante di tali oneri, tuttavia, è già stata trasferita sui consumatori statunitensi, che si trovano a fronteggiare prezzi più elevati e un conseguente indebolimento del potere d’acquisto. Secondo uno studio condotto dalla Federal Reserve di New York, circa un terzo dei produttori e quasi la metà delle imprese di servizi hanno già scaricato sui clienti parte dei costi derivanti dai dazi; qualora le tariffe venissero mantenute in via permanente, ulteriori rincari si riverserebbero inevitabilmente sui consumatori, determinando una progressiva compressione dei redditi reali.
Nel mese di giugno l’indice dei prezzi al consumo (CPI) negli Stati Uniti si è attestato al 2,7% su base annua, in aumento rispetto al 2,4% rilevato a maggio. Parallelamente, il mercato dei CPI swap prevede un’inflazione al 3,4% nell’arco di un anno, prospettiva alimentata soprattutto dall’impatto delle tariffe. Un’inflazione più elevata tende a pesare sulla fiducia dei consumatori: sebbene a giugno le vendite al dettaglio abbiano mostrato un temporaneo rimbalzo, risultano comunque inferiori dello 0,5% rispetto a dicembre. Nel frattempo, il recupero dei mercati azionari osservato da aprile ha contribuito ad allentare le condizioni finanziarie e potrebbe sostenere la domanda dei consumatori, soprattutto qualora la Federal Reserve decidesse di avviare un ciclo di riduzione dei tassi di interesse. Il disegno di legge denominato “One Big Beautiful” porterà a un aumento del deficit statunitense pari allo 0,8% del PIL, misura che potrebbe contribuire ad attenuare l’impatto delle tariffe, sempre che il mercato obbligazionario non reagisca in modo avverso.
Nonostante le notizie relative ai dazi siano ormai state assorbite dai mercati, la crescita del PIL statunitense continua a mostrare segnali di rallentamento, mentre le aspettative indicano un’accelerazione dell’inflazione nella seconda metà dell’anno. Questo scenario rischia di tradursi in un’inflazione persistente, o persino in una fase di stagflazione, poiché la crescita rallenta mentre l’inflazione rimane compresa tra il 2,5% e il 3%. A differenza di molte altre economie, solitamente vincolate dal lato della domanda, gli Stati Uniti risultano oggi limitati dal lato dell’offerta, con una carenza stimata di circa 1,4 milioni di lavoratori. Inoltre, i consumi dei pensionati non differiscono in modo significativo da quelli della popolazione attiva, ma sono alimentati da risparmi e rendite pensionistiche piuttosto che da salari. Ne deriva che la domanda interna resta elevata, mentre la disponibilità di forza lavoro continua a ridursi.
Fino a poco tempo fa, il divario nell’offerta di lavoro negli Stati Uniti veniva colmato grazie ai flussi migratori e al contributo della crescita della produttività. Oggi, tuttavia, con l’azzeramento dell’ingresso di immigrati irregolari e l’avvio delle procedure di rimpatrio, emerge il rischio di una recessione determinata dal lato dell’offerta. Perché ciò si verifichi, la riduzione della forza lavoro dovrebbe superare il ritmo di crescita della produttività, attualmente stimato intorno all’1,5%. Considerando che la forza lavoro complessiva si aggira sui 170 milioni di unità, questo implicherebbe una contrazione di circa 2 milioni di lavoratori, vale a dire 200.000 al mese. Uno scenario di espulsioni di tale portata appare improbabile, ma una diminuzione del tasso di partecipazione o un aumento dei pensionamenti potrebbe produrre un impatto simile. In un contesto di questo tipo, un’economia vincolata dall’offerta di lavoro tende fisiologicamente a generare pressioni inflazionistiche, o nei casi più estremi a scivolare verso la stagflazione.
È invece appropriato che la Federal Reserve riduca i tassi di interesse qualora il rallentamento dell’economia sia riconducibile a una debolezza della domanda, poiché tassi più bassi favoriscono la spesa delle famiglie e gli investimenti delle imprese. Diversamente, la stessa strategia risulta inefficace se il rallentamento è legato a vincoli strutturali dal lato dell’offerta: in una simile condizione, infatti, un taglio dei tassi finirebbe per alimentare ulteriormente l’inflazione senza produrre benefici sulla capacità produttiva complessiva. Ne consegue che, nel contesto attuale, tassi e rendimenti obbligazionari negli Stati Uniti difficilmente potranno registrare cali significativi.
Europa
Il cambio euro/dollaro mostra un orientamento al rialzo. Mentre gli Stati Uniti presentano un deficit delle partite correnti pari al 4,6% del PIL, l’area euro registra un avanzo del 2,3%. Finché i flussi di capitale verso gli Stati Uniti sono stati consistenti, questo squilibrio non ha rappresentato un problema per il dollaro: il deficit americano è stato infatti compensato dall’avanzo del conto capitale, che ha sostenuto la valuta e finanziato la domanda interna, contribuendo al tempo stesso ad aggravare lo squilibrio. Oggi, però, tale avanzo del conto capitale è messo in discussione, poiché gli investitori si orientano verso destinazioni alternative, esercitando crescenti pressioni al ribasso sul dollaro. Le passività nette degli Stati Uniti nei confronti dell’estero superano le attività estere detenute dagli stessi Stati Uniti, rendendo necessari continui afflussi di capitali. Al contrario, l’Europa ha migliorato la propria posizione patrimoniale netta internazionale, passata dal -27% dell’inizio della crisi dell’eurozona a +8% alla fine del 2024. L’incertezza politica negli Stati Uniti alimenta volatilità e premi al rischio, una dinamica che inizia a riflettersi anche in Europa. Con mercati dei capitali secondi solo a quelli statunitensi per profondità, un indebolimento del dollaro tende a tradursi in un rafforzamento dell’euro.
Tuttavia, la dinamica attuale non riflette soltanto un dollaro più debole, ma anche un quadro europeo in miglioramento. L’Europa è infatti uscita dalla fase di stagflazione seguita alla pandemia: l’inflazione è in calo, i tassi di interesse si stanno riducendo e le performance economiche mostrano un’inversione di tendenza. In questo contesto, l’economia europea appare in grado di assorbire anche l’impatto di eventuali tariffe al 15% da parte degli Stati Uniti.
Le politiche di austerità adottate in Europa hanno a lungo compresso la domanda interna, il turnover degli asset e i rendimenti sul capitale, contribuendo in parte alla debole dinamica della produttività registrata a partire dalla crisi finanziaria globale. Un’integrazione più profonda nei settori della difesa, dell’energia e dei mercati dei capitali potrebbe favorire un’accelerazione della crescita e un miglioramento strutturale della produttività. Mentre gli Stati Uniti devono confrontarsi con un’inflazione persistente e con una spinta fiscale meno incisiva, la posizione debitoria dell’Europa mostra chiari segnali di miglioramento. Nelle economie periferiche, il debito del settore privato si è ridotto dal 178% del PIL registrato all’inizio della crisi dell’eurozona nel 2011 al 103%, un livello analogo a quello osservato al momento dell’introduzione della moneta unica nel 2002. Il completamento del processo di deleveraging dovrebbe consentire un graduale recupero della domanda interna. Inoltre, i costi unitari del lavoro si sono progressivamente allineati tra i Paesi core e quelli periferici, mentre i deficit delle partite correnti di questi ultimi sono stati azzerati, riducendo le pressioni sull’euro e aprendo la strada a un possibile restringimento degli spread sovrani. In generale, nel primo trimestre i mercati azionari europei hanno registrato una performance superiore rispetto a quelli statunitensi, salvo poi restituire parte di tale vantaggio a causa dell’impatto negativo dell’apprezzamento dell’euro sugli utili societari.
La Banca Centrale Europea (BCE) ha mantenuto invariati i tassi di interesse a luglio e il consenso indica la possibilità di un solo ulteriore taglio. Tuttavia, l’inflazione prosegue nel suo percorso di riduzione, avvicinandosi progressivamente al 2%, mentre il rafforzamento dell’euro contribuisce a comprimere i prezzi all’importazione. L’eccesso di capacità produttiva in Cina alimenta dinamiche deflattive a livello globale, mentre la tariffa del 15% sulle esportazioni europee verso gli Stati Uniti rischia di incidere negativamente sugli investimenti in capitale e sulla dinamica dei prezzi. In questo contesto, non si può escludere l’eventualità di due ulteriori riduzioni dei tassi da parte della BCE. La crescita salariale mostra segnali di rallentamento: l’indicatore elaborato dalla BCE è sceso dal 5,6% all’1,6%, mentre la capacità inutilizzata nel mercato del lavoro è in aumento. L’euro, dal canto suo, si è rafforzato del 15% rispetto al minimo registrato quest’anno nei confronti del dollaro. Il prezzo del Brent è sceso al di sotto dei 70 dollari al barile – il livello più basso dal 2021 in termini di euro – e anche il prezzo del gas ha subito un calo, oscillando tra i 30 e i 40 euro per MWh. Nel complesso, i prezzi all’importazione risultano in discesa, facendo emergere il rischio che la deflazione diventi il tema dominante per l’economia europea.
Conclusioni
Le tariffe non hanno ancora inciso in modo rilevante sui margini aziendali, ma sono destinate a farlo presto, con conseguenze negative sugli utili. I consumi, che rappresentano i due terzi dell’economia statunitense, si sono arrestati, attestandosi su livelli inferiori rispetto a dicembre: un andamento insolito in una fase in cui l’economia continua a crescere, seppur a un ritmo più contenuto rispetto all’anno precedente. Poiché la dinamica dei consumi tende generalmente ad anticipare quella degli investimenti, resta da verificare se il rallentamento porterà le imprese a ridurre i piani di spesa e a ricorrere a licenziamenti. Con l’approvazione da parte del Congresso di un nuovo innalzamento del tetto del debito, il Dipartimento del Tesoro aumenterà il General Account da 350 a 850 miliardi di dollari, drenando 500 miliardi di liquidità dal sistema nei prossimi mesi e annullando l’iniezione di pari entità effettuata di recente.
Nel frattempo, le prospettive per l’Europa appaiono in miglioramento, sostenute dal calo dell’inflazione, dal rafforzamento dell’euro e dall’avanzare delle riforme strutturali. La riduzione dei costi energetici contribuisce a rafforzare i margini e a stimolare gli investimenti, mentre lo stimolo fiscale della Germania e un processo di integrazione più profonda all’interno dell’Unione europea sostengono ulteriormente il potenziale di crescita. Il surplus commerciale dell’Eurozona e il miglioramento della dinamica del debito si contrappongono all’instabilità fiscale statunitense, rendendo l’Europa una destinazione sempre più interessante per gli investitori.