Cinema & Co.

“A Complete Unknown”: il soffio del cambiamento tra musica e mito

di Teodosio Orlando
 

Il regista James Mangold, noto per alcuni biopic (Walk the Line), per film del Marvel Cinematic Universe e per dei western del XXI secolo, con A Complete Unknown riesce incredibilmente a condurre in porto un’ardua scommessa: quella di narrare i primi anni di colui che è indiscutibilmente la leggenda vivente della musica folk contemporanea: il premio Nobel Robert Zimmerman, più noto al pubblico con lo pseudonimo di Bob Dylan. In effetti, portare sullo schermo un segmento della vita di un personaggio così significativo, e per giunta ancora vivo e attivo (pur avendo superato gli 80 anni), è un’impresa da far tremare “tremar le vene e i polsi”, per riprendere un’espressione del padre Dante (Inferno, v. 90), il nostro Sommo Poeta che sembra rientrasse nelle letture dylaniane (ed è citato, sia pur indirettamente, in almeno due liriche, “Tangled Up in Blue” e “Caribbean Wind”, appartenenti però agli anni ’70).

Peraltro, il film non tenta di offrire un ritratto esaustivo dell’artista, una delle figure più enigmatiche e plurisfaccettate della musica contemporanea, ma si concentra sugli anni della sua ascesa, dal 1961 al 1965. Mangold in realtà prende ispirazione dal libro di Elijah Wald Dylan Goes Electric, pubblicato in italiano dall’editore Vallardi con il titolo Il giorno che Bob Dylan prese la chitarra elettrica. E fedelmente segue Dylan (Timothée Chalamet) mentre arriva a New York al Greenwich Village, seguendo il richiamo di Woody Guthrie ((Scoot McNairy); nella Grande Mela incontra vari personaggi della scena folk, Pete Seeger (Edward Norton), Joan Baez (Monica Barbaro), Suze Rotolo, manager, musicisti e una folla variopinta e multietnica. Lo stesso titolo del film, A Complete Unknown, allude all’aura di mistero di cui Dylan si è sempre circondato in modo compiaciuto. È peraltro tratto da un verso dello stesso Dylan, dal brano “Like a Rolling Stone” (“How does it feel/How does it feel/ To be on your own/With no direction home/Like a complete unknown/Like a rolling stone?” – “Come ci si sente/come ci si sente/a contare solo su sé stessi/senza un posto dove andare/come un completo sconosciuto/come una pietra che rotola?”), in cui il menestrello di Duluth intende rinunciare a quell’immagine di profeta che gli avevano cucito addosso, per sentirsi libero di seguire la propria strada ed essere del tutto sincero con sé stesso.

Il casting di Timothée Chalamet nel ruolo di Dylan è stato accolto con un misto di curiosità e scetticismo, ma il giovane attore  – che abbiamo molto apprezzato nei panni di Willy Wonka nella saga dedicata alla fabbrica di cioccolato – dimostra ancora una volta il suo straordinario talento. La sua interpretazione non si riduce a una semplice imitazione, ma restituisce un Dylan che è al tempo stesso affascinante e sfuggente, geniale e irritante, capace di catalizzare le emozioni del pubblico senza mai concedere un accesso completo alla sua interiorità. La scelta di far cantare Chalamet dal vivo aggiunge un ulteriore livello di autenticità alla sua performance, evitando il rischio di un ritratto eccessivamente costruito. Tim non sta cercando di imitare perfettamente Dylan: la sua è un’interpretazione, non una pedante e rigida riproduzione volta a  muoversi e suonare esattamente come Bob Dylan. Ad esempio, come nota Elijah Wald, Dylan in quel periodo al Greenwich Village preferiva alzarsi in piedi e non si sedeva e sul palco; si alzava e si muoveva costantemente, camminava quasi stesse per cadere dal palco, e poi si riprendeva. In questo somigliava un po’ a Charlie Chaplin. Chalamet preferisce rimanere seduto sulla sedia, forse perché non avrebbe trovato facile suonare la chitarra mentre e al contempo assumere altre pose. 

Notevole è anche l’interpretazione di Suze Rotolo, che nel film assume il nome di Sylvie Russo. L’attrice Elle Fanning riesce benissimo a far credere che sia un’artista e una donna impegnata in politica, con un suo carattere, ben evidenziato anche nei sentimenti di gelosia verso Joan Baez. Il suo impegno politico non era peraltro minore di quello della Baez. E quando si sono lasciati, Dylan ha smesso di interessarsi di politica. Elle Fanning offre una performance intensa, rappresentando l’amore giovanile e l’idealismo politico che influenzarono il primo Dylan. Fanning riesce a trasmettere sia l’amore che la frustrazione di una donna che cerca di comprendere un uomo enigmatico e in continua evoluzione.

Anche Joan Baez viene resa splendidamente da Monica Barbaro, che riesce a rendere l’idea di come fosse più popolare di Dylan, nei primi anni ’60. Joan era una grande star e faceva concerti per migliaia di persone, non suonava in quei piccoli locali notturni che tanto caratterizzavano il Greenwich Village. La chimica con Dylan/Chalamet è palpabile: la loro relazione, fatta di attrazione artistica e tensioni personali, è una delle linee narrative più coinvolgenti.

Uno degli aspetti più riusciti del film è proprio la ricostruzione dell’ambiente del Greenwich Village nei primi anni ’60. La fotografia di Phedon Papamichael e la scenografia di François Audouy restituiscono con straordinaria accuratezza l’atmosfera di quei club fumosi, le strade affollate da artisti di strada e intellettuali, il fervore creativo che attraversava i locali come il Gaslight Cafe. Il film riesce a trasportare lo spettatore in quel periodo, facendogli percepire la carica innovativa della scena folk e il senso di comunità tra i musicisti che condividevano una stessa tensione ideale.

Tra gli altri personaggi, va citato Edward Norton nel ruolo di Pete Seeger, che incarna la figura paterna del movimento folk: viene rappresentato come colui che è rimasto fedele alla tradizione folk e alla musica di protesta, diventando un simbolo del movimento per i diritti civili e della canzone popolare. La sua forza è stata quella di preservare e diffondere la musica tradizionale, ma senza la stessa spinta innovativa di Dylan, fino a creare canzoni di protesta semplici e immediate, come We Shall Overcome o If I Had a Hammer. Mentre Scoot McNairy porta sullo schermo un toccante Woody Guthrie, il mentore malato del morbo di  Huntington, che accoglie Dylan nel pantheon della musica americana; di rilievo è anche la parte di Dan Fogler, nei panni del manager Albert Grossman. Memorabile è poi l’interpretazione di Boyd Holbrook nelle vesti di Johnny Cash (oggetto del già ricordato film di Mangold, Walk the Line). Artista che appoggiò Dylan, ma che, pur essendo un innovatore nel country e nel rockabilly, ha mantenuto un’identità musicale relativamente stabile, basata su temi come la redenzione, la ribellione e la vita rurale, con canzoni come Folsom Prison Blues o Hurt. La sua originalità risiede più nella sua capacità di raccontare storie potenti  e nella sua presenza carismatica che nella sperimentazione musicale. 

Il momento chiave del film è la celebre esibizione di Dylan al Newport Folk Festival del 1965, quando imbracciò la chitarra elettrica scatenando reazioni furiose tra i puristi del folk. Il premio Nobel stesso ricorda: “I played all the folk songs with a rock’n’roll attitude. This is what made me different and allowed me to cut through all the mess and be heard.” (“Suonavo tutte le canzoni folk con un atteggiamento rock'n'roll. Questo è ciò che mi ha reso diverso e mi ha permesso di tagliare i ponti con la confusione e di essere ascoltato”).

Mangold costruisce magistralmente questa sequenza, trasformandola in una sorta di rito di passaggio. Il pubblico reagisce con fischi e insulti, mentre Dylan, con un misto di sfida e vulnerabilità, porta avanti la sua rivoluzione sonora. Qui il film cattura al meglio l’essenza del suo protagonista: siamo in presenza di uomo in continua metamorfosi, che rifiuta deliberatamente di corrispondere alle aspettative degli altri, fossero pure i suoi più intimi amici o i suoi fan più convinti. Quando Dylan intona le note of “Maggie’s Farm,” lasciamo l’ambito della storia ed entriamo nel regno del mito, come annotano Mangold e Wald. Alcuni spettatori ricordano come la folla sia esplosa in fischi e boati, altri ricordano applausi, altri ancora un silenzio turbato. Dylan mostrò in questo caso di essere più che mai fedele a sé stesso: benché sia stato spesso associato al movimento per i diritti civili, il film mostra come lui abbia sempre cercato di evitare di essere etichettato come un “cantante di protesta”.

La sua decisione di suonare con la chitarra elettrica a Newport fu un atto di ribellione non solo contro le convenzioni musicali, ma anche contro le aspettative politiche e sociali che alcuni pretendevano di imporgli. Mangold evita comunque le trappole del biopic classico, rifuggendo la narrazione lineare e l’eccessivo tono didascalico. Il regista adotta un approccio simile a quello di I’m Not There di Todd Haynes (altro biopic su Dylan, realizzato nel 2007), suggerendo più che spiegando, lasciando che sia la musica a raccontare Dylan. Le canzoni, eseguite dal vivo dagli attori, sono parte integrante della narrazione: da “Blowin’ in the Wind” a “Like a Rolling Stone”, ogni brano segna un passaggio nella trasformazione del protagonista. Le esecuzioni denotano grande rispetto e autenticità, e la scelta di far cantare e suonare gli attori dal vivo aggiunge un livello di realismo che raramente si vede nei biopic musicali.

Tra le canzoni che più spiccano, citeremo “The Times They Are a-Changin’”: è un inno al cambiamento sociale, con una struttura semplice e ripetitiva che enfatizza il carattere profetico del messaggio. Il testo riflette l’inevitabilità delle trasformazioni storiche e l’urgenza di adattarsi ad esse. “Mr. Tambourine Man” è invece un viaggio onirico e psichedelico, caratterizzato da una lirica evocativa e aperta a molteplici interpretazioni. Il tamburino diventa metafora dell’ispirazione artistica e della fuga dalla realtà.
“A Hard Rain’s a-Gonna Fall” è invece una ballata apocalittica che utilizza la forma della domanda e risposta per costruire un affresco visionario e simbolico. Il testo fonde riferimenti biblici e immagini surreali per evocare un senso di catastrofe imminente.

Infine, non possiamo non menzionare una seconda volta “Like a Rolling Stone”. È la vera canzone-manifesto della ribellione e dell’alienazione, caratterizzata da un linguaggio sarcastico e visionario. Il brano si distingue per la sua struttura non convenzionale e per un crescendo musicale che enfatizza l’amara ironia del testo.

Ma perché queste canzoni si sono conservate intatte nel tempo, non solo per la loro carica poetica e per la struttura melodica, bensì anche per la loro fissazione nell’immaginario musicale collettivo? Tenteremo di rispondere attraverso le osservazioni del filosofi e musicologo Theodor W. Adorno sul concetto di “evergreen” nella musica popolare, che offrono una chiave di lettura interessante per valutare la longevità e l’impatto della musica di Dylan. A differenza di molti successi pop costruiti per essere effimeri o per suscitare una nostalgia prefabbricata, le sue canzoni mantengono una freschezza e una profondità che vanno oltre la mera ripetizione di schemi emotivi preconfezionati.  Brani come “The Times They Are A-Changin’”, “Blowin’ in the Wind” e “Like a Rolling Stone” non sono semplici “hit” destinate a invecchiare rapidamente, ma riescono a combinare immediatezza e spessore culturale. Dylan incarna quello che Adorno descrive come il paradosso del pop di qualità: scrivere qualcosa di immediatamente riconoscibile, ma che allo stesso tempo conservi un carattere distintivo e originale. Il suo stile apparentemente spontaneo cela un’articolazione raffinata e una densità poetica che lo elevano ben al di sopra della musica commerciale convenzionale. A differenza delle “nostalgia songs” di cui parla Adorno, che riciclano ricordi e schemi emotivi per generare un senso di appartenenza, la musica di Dylan mantiene un potere sovversivo, sfuggendo alla reificazione tipica dell’industria culturale.

È proprio questa capacità di rinnovarsi nel tempo, pur restando fedele a una poetica personale, a rendere il suo repertorio un punto di riferimento unico nella storia della canzone d’autore. Peraltro, Adorno, diffidente com’era verso la cosiddetta “industria culturale”, non mancava di sottolineare che gli evergreen mobilitano associazioni erotiche private in ogni individuo. Queste canzoni fingono la nostalgia di esperienze passate, irrimediabilmente perdute, e sono dedicate a tutti quei consumatori che pensano di ottenere nei ricordi di un passato fittizio la vita che è stata loro negata. Eppure questa qualità specifica degli evergreen – continua il grande musicologo – non può essere semplicemente liquidata: “possiamo cercarla nell'impresa paradossale di mettere a segno, con materiale del tutto usurato e banale, un colpo musicale e forse espressivo su un bersaglio specifico e inconfondibile. In questi prodotti l'idioma è diventato una seconda natura, permettendo qualcosa di simile alla spontaneità, all’idea, all'immediatezza. In America, l’evidente reificazione si ritrae a volte, senza essere forzata, in una parvenza di umanità e di vicinanza, e non solo in una parvenza. […] La musica popolare nasconde una qualità che si è persa nella musica alta, ma che un tempo era stata essenziale per essa, una qualità di elemento individuale relativamente indipendente e qualitativamente diverso in una totalità”.

Del resto, quando la giuria del Nobel decise di conferire a Dylan l’ambito premio nel 2016, si trattò di un riconoscimento non solo della sua capacità poetica, ma anche della sua profonda connessione con la cultura popolare. I suoi testi, in particolare quelli di cui abbiamo avuto alcune ottime esemplificazioni nel film, hanno una freschezza e una forza immediata che li rendono universali e senza tempo. Questa caratteristica distingue Dylan da un altro grande cantautore, anche lui di origine ebraica, Leonard Cohen, il cui lirismo è forse più sofisticato e cesellato, ma anche più intellettuale e meno immediato. I testi di Cohen sono spesso meditativi, intrisi di riferimenti biblici, mistici e filosofici (“Suzanne”, “Famous Blue Raincoat”, “Hallelujah”, di cui Dylan ha inciso una cover, omaggio più unico che raro al grande “collega”), mentre quelli di Dylan, pur avendo molteplici livelli di lettura, colpiscono subito con immagini evocative e frasi memorabili che entrano nel linguaggio comune.

La giuria del Nobel ha probabilmente premiato Dylan proprio per questa capacità di fondere poesia e oralità, innovazione e tradizione popolare. I suoi testi hanno un’immediatezza che non esclude la profondità: “Blowin’ in the Wind” sembra una semplice domanda aperta, ma dietro c’è un senso di sospensione e mistero che la rende perenne; “Like a Rolling Stone” ha un tono colloquiale e provocatorio, ma è anche un ritratto fulminante di alienazione e libertà.

Cohen, con la sua scrittura più sofisticata e meditativa, ha creato una poesia per pochi, mentre Dylan ha parlato a tutti senza rinunciare alla complessità. Questo equilibrio tra accessibilità e profondità, tra folk e avanguardia, tra radici popolari e sperimentazione poetica, è forse il motivo per cui i giurati hanno ritenuto Dylan un candidato più adatto per il Nobel.

Considerazione analoghe, ma di segno quasi opposto, possono valere per Neil Young e Bruce Springsteen: sono due autori straordinari, profondamente radicati nella cultura popolare, ma nessuno dei due raggiunge la complessità poetica e la capacità di trasformazione di Dylan. Young è sicuramente più vicino a Dylan di quanto lo sia Cohen, almeno per l’immediatezza delle sue immagini e per la sua capacità di evocare emozioni universali con testi diretti e melodie semplici. Canzoni come “Heart of Gold”, “Old Man” o “After the Gold Rush” hanno una bellezza essenziale e una forza lirica notevole, ma rimangono più ancorate a un immaginario intimo e personale, senza quella capacità di esplorare molteplici registri poetici che caratterizza Dylan. Anche nelle sue canzoni più politiche, come “Ohio”, Young è efficace, ma non ha il livello simbolico o la stratificazione di significati tipici di Dylan.

Bruce Springsteen, dal canto suo, è un grandissimo storyteller, un poeta della classe operaia, ma il suo stile è più narrativo e cinematografico che metaforico e allusivo. Album come Born to Run, Nebraska o The River raccontano storie potenti di sogni, fallimenti e speranze, con immagini che sembrano uscite da un film di John Steinbeck o di Martin Scorsese. Tuttavia, i suoi testi non raggiungono mai la rarefazione lirica di Dylan: Springsteen è più cronista che visionario, più epico che ermetico.
Dylan, invece, è in grado di muoversi tra i registri con una libertà unica: può essere semplice e immediato (“The Times They Are A-Changin’”), visionario e allucinato (“Desolation Row”), romantico e malinconico (“Girl from the North Country”), ironico e dissacrante (“Subterranean Homesick Blues”), senza mai rinchiudersi in una sola dimensione stilistica.

Dylan resta ineguagliabile. Sintesi perfetta di popolarità, immediatezza e cultura. Come qualità letterarie ci sono anche altri cantautori forse a lui superiori, ma non così situati in quel crocevia di immediatezza e cultura alta che caratterizza Dylan: ad esempio Peter Hammill (molto cerebrale, benché raffinato quanto e più di Cohen), Robert Wyatt (troppo visionario), David Tibet (troppo esoterico), Roger Waters (troppo ossessivo), Syd Barrett (troppo psichedelico).

Di costoro,  vediamo che ognuno eccelle in un aspetto specifico, ma manca di quella sintesi perfetta che rende Dylan irripetibile: Peter Hammill (Van Der Graaf Generator): la sua scrittura è di un’intensità e complessità quasi barocca, con un'introspezione psicologica che lo rende più vicino alla letteratura modernista che alla tradizione folk o blues. È un poeta colto e cerebrale, ma meno accessibile e meno radicato nella cultura popolare rispetto a Dylan.

Robert Wyatt: la sua sensibilità politica e poetica è profonda, e le sue liriche hanno una qualità visionaria che lo rende unico. Tuttavia, la sua musica è spesso sperimentale, eterea, quasi fuori dal tempo, e non ha la stessa connessione diretta con l’ascoltatore comune che Dylan ha sempre mantenuto.

David Tibet (Current 93) un poeta mistico ed esoterico, profondamente influenzato dall’occultismo e dalla letteratura apocalittica. I suoi testi sono affascinanti e ricchissimi di riferimenti, ma parlano a una nicchia ristretta e non hanno quella dimensione collettiva che invece caratterizza Dylan.

Roger Waters (Pink Floyd): grandissimo autore, capace di creare testi potentemente politici ed esistenzialisti, ma con una vena ossessiva e pessimistica che lo rende più monocorde rispetto alla varietà espressiva di Dylan. Waters tende a martellare su alcuni temi (alienazione, autoritarismo, guerra) senza il respiro poetico più ampio che caratterizza Dylan.

Syd Barrett (Pink Floyd): un poeta della psichedelia, capace di immagini surreali e di una sensibilità infantile e anarchica, ma meno universale e più legato alla sua personale deriva esistenziale. Dylan ha la capacità di parlare a tutti, mentre Barrett è più ermetico e frammentato.

Dylan, invece, riesce a essere immediato e universale senza mai rinunciare alla profondità culturale e letteraria. È folk e simbolista, è bluesman e poeta biblico, è cronista sociale e profeta apocalittico. Nessuno ha saputo intrecciare così tanti registri senza perdere autenticità. E per questo rimane un caso unico nella storia della musica e della letteratura.

In conclusione: A Complete Unknown è un film che cattura l’essenza di Dylan senza mai ingabbiarlo. Non è un’opera definitiva, né pretende di esserlo: come il suo soggetto, resta aperta, sfuggente, libera. Grazie alla regia ispirata di Mangold, alla fotografia evocativa e all’intensa performance di Chalamet, il film riesce a restituire la magia e la contraddizione di un artista che ha fatto della metamorfosi la sua unica costante. Un’opera imperdibile per gli appassionati di Dylan, ma anche per chi vuole immergersi in uno dei momenti più elettrizzanti della storia della musica.

Scheda Tecnica

• Titolo originale: A Complete Unknown
• Regia: James Mangold
• Genere: Biografico, Musicale, Drammatico
• Data di uscita: 25 dicembre 2024

Lingua originale: inglese
Paese di produzione: Stati Uniti d'America
Durata:141 minuti
Soggetto: dal libro Dylan Goes Electric! di Elijah Wald
Sceneggiatura: James Mangold, Jay Cocks
Produttore: James Mangold, Timothée Chalamet, Alan Gasmer, Bob Bookman, Peter Jaysen, Jeff Rosen, Fred Berger, Alex Heineman
Produttore esecutivo: Bob Dylan, Michael Bederman, Brian Kavanaugh-Jones, Andrew Rona
Casa di produzione: Range Media Partnersm Veritas Entertainment Group, The Picture Company, Turnpike Films
Distribuzione in italiano: Searchlight Pictures, The Walt Disney Company Italia
Fotografia: Phedon Papamichael
Montaggio: Andrew Buckland, Scott Morris
Scenografia: François Audouy, Regina Graves
Costumi: Arianne Phillips

Interpreti e personaggi

Timothée Chalamet: Bob Dylan
Monica Barbaro: Joan Baez
Elle Fanning: Sylvie Russo
Edward Norton: Pete Seeger
Boyd Holbrook: Johnny Cash
P. J. Byrne: Harold Leventhal
Scoot McNairy: Woody Guthrie
Dan Fogler: Albert Grossman
Will Harrison: Bob Neuwirth
Norbert Leo Butz: Alan Lomax
Eriko Hatsune: Toshi Seeger
Charlie Tahan: Al Kooper


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